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d'una coppia consolare poteva quindi dar luogo ad un qualsiasi errore nel calcolo.

Nè basta. Abbiamo in Polyb. I, 56, 2, un altro calcolo di questo genere, cioè Γἔτος ὀκτωκαιδέκατον riferito alla nomina di Barca a comandante supremo ed all' occupazione di Ercte. Barca è rimasto ad Ercte per tre anni (Polyb. I, 56, 11), e due anni ad Erice (Polyb. I, 58, 6), fino alla battaglia delle Egadi, avvenuta secondo me nel 241 ed anche secondo Luterbacher (pag. 424), in ogni caso non prima dell' autunno del 242. Da ciò consegue che Barca ha preso il comando supremo nel 246, il quale anno era, insistiamo, il diciottesimo della guerra. Veniamo dunque, pel principio della guerra, di nuovo al 263.

anno di

Nè si può in questo caso dire che Polibio ha contato un meno pel motivo che ha omesso i consoli del 502. Infatti, a partire dal 505 fino al 512, Polibio omette tutti i consolati; non può dunque aver fatto il suo calcolo dei diciotto anni contando le coppie consolari.

Finalmente che la spiegazione del calcolo polibiano accettata da Luterbacher non sia da ritenere giusta, risulta anche dal fatto che Polyb. I, 63, 4, ascrive alla durata della guerra ventiquattro anni. Infatti se le cose fossero state come crede Luterbacher, Polibio avrebbe assegnato alla medesima non ventiquattro anni ma ventitre.

La verità sta insomma in ciò, che tutti questi calcoli non sono il risultato di computi fatti da Polibio, ma sono stati dal medesimo trascritti dalle sue fonti: i primi due da Filino, e quest' ultimo da Fabio, il quale ha naturalmente calcolato gli anni di durata della guerra contando i consolati.

Γἔτος τεσσαρεσκαιδέκατον e Γἔτος οκτωκαιδέκατον non si possono spiegare ove si voglia porre il principio della guerra nel 264. Questa ha dunque incominciato bensì durante il consolato di Ap. Claudio (490), ma nel 263, anno quest' ultimo il quale costituisce uno dei due punti estremi su cui sono basati i succitati calcoli, i quali, insistiamo, provengomo da una fonte greca, cioè da Filino.

Di calcoli di questo genere abbiamo i seguenti esempi quanto alla guerra di Annibale :

1o. La catastrofe degli Scipioni è avvenuta durante il consolare 542 e nella primavera 211. E Livio, seguendo in ultima analisi una fonte greca, dice:

Octavo anno postquam in Hispaniam venerat (cioè a partire dal 218) Cn. Scipio. ... est interfectus (XXV, 36, 14; vedi Cron. pag. 165).

20. La cacciata definitiva dei Cartaginesi dalla Spagna devesi ascrivere bensì alla prima metà della buona stagione del 205; ma ancora al consolare 548, poichè P. Scipione alla fine del 548 era già a Roma, essendo venuto a chiedere il consolato pel 549. Dunque la cacciata dei Cartaginesi dalla Spagna per gli annalisti dev'essere avvenuta nel tredice

simo anno a partire dal principio della guerra (536) e nell' anno quattordicesimo per gli storici greci.

Liv. 28, 6, 14, in base a questi ultimi dice:

Hoc maxime modo ductu atque auspicio P. Scipionis pulsi Hispania Carthaginienses sunt, quarto decimo anno post bellum initum, quinto (cioè a partire dalla prima campagna di Scipione, 209), quam P. Scipio prorinciam et exercitum accepit (Vedi Cron. pagg. 208-216).

Filino, Sileno, Sosilo ecc. non potevano naturalmente contare secondo i consolati e tanto meno in base ai suffeti Cartaginesi. Non rimaneva quindi loro altro che contare in base alle stagioni di guerra, computo questo pel quale aveva loro fornito il tipo Tucidide.

Veniamo ai consoli del 492, L. Postumio e Q. Emilio. Questi consoli, appena vennero in Sicilia, si avviarono con tutto l'esercito contro Agrigento e si accamparono, secondo Polyb. I, 17, 8. ad otto stadi da questa città, costringendo i Cartaginesi a rimanersene rinchiusi dentro le mura. Non molto dopo viene il tempo della raccolta; i Cartaginesi assaltano improvvisamente i Romani, che si erano dati con troppo ardore a raccogliere il frumento, e per poco non li sconfiggono.

Naturalmente Luterbacher crede che si tratti della mietitura del 262. A pag. 404, dice semplicemente così:

Die Konsuln schlossen den Hannibal, den Diktator, d. h. wohl Jahreskönig oder Sufes, der Karthager in Agrigent ein, zur Zeit der Ernte 262, nicht 261, wie Varese S. 18 und Schermann S. 34 annehmen.

Ma ciò è senz' altro impossibile. I consoli entravano in carica alle calende di maggio; non potevano quindi partire da Roma prima della fine di questo mese. Da Roma ad Agrigento v'è una distanza di circa 1000 km; in una lunghissima marcia quale quella da Roma ad Agrigento, un esercito non può percorrere in media più di una ventina di km. al giorno; non possiamo dunque, anche ammettendo che i consoli appena arrivati a Messina, abbiano senz' altro continuato la loro marcia alla volta di Agrigento, ritenere che i medesimi abbiano potuto giungere sotto questa città in un tempo anteriore alla fine del luglio pregiul.

Devesi quindi anche ove si ritenga che il calendario abbia funzionato regolarmente, assegnare l'arrivo di L. Postumio e Q. Emilio sotto Agrigento ad un tempo posteriore alla mietitura del 262.

Da ciò risulta dimostrato che anche questi consoli sono partiti alla seconda egɛia (prim. 261).

*

Diamo uno sguardo alla cronologia dell' ultimo anno della guerra. Mi sono occupato diffusamente di ciò nel fasc. pagg. 4-11 e nella Cron. pagg. 37-42; e credo di aver dimostrato quanto segue:

1o.

-

Che Catulo è venuto in Sicilia non molto prima di Annone. 2o. Che l'arrivo di Annone coincide con la battaglia delle Egadi.

40

P. Varese, Nuovi contributi alla cronologia della prima guerra punica.

la quale è stata combattuta VI Id. Mart. secondo Eutr. II, 27; datazione questa confermata da Zon. VIII, 17.

3o. Che dunque Catulo è partito durante la seconda metà del suo annus, poniamo un mese e mezzo prima del VI Id. Mart.

4. Che però devesi la partenza di Catulo ascrivere al principio della buona stagione, poniamo alla fine di aprile o primi di maggio (Polyb. I, 49, 8: ἀρχομένης τῆς θερείας).

Così ho fatto il seguente ragguaglio: marzo 512 giugno 241.

Ed ecco con quali ragioni Luterbacher rigetta tutto ciò. Nemmeno lui (ed è tutto dire), ha potuto sostenere che Catulo sia partito al principio del suo annus. Riportiamo le sue stesse parole pag. 422:

Dass alle diese Schiffe schon bereit waren, als Catulus zum Anführer bestimmt wurde, ist schlechterdings nicht glaublich. Auch gingen mit der Flotte ohne Zweifel einige frische Landtruppen zu den orgatórɛda (Polyb. 1, 61, 8) nach Sizilien. Es mussten mindestens 100000 Mann an Truppen und socii navales ausgehoben werden (?), und es war feststehende Sitte, dass die Konsuln selbst ihre Mannschaften aushoben. Also waren Lutatius und Postumius noch viele Wochen mit den Aushebungen der Bemannung und Befrachtung der Schiffe in Rom beschäftigt. Auch mussten sie das Latinerfest halten. Als sie aber ausfahren wollten, trat ein Hindernis ein: Metellus pontifex marimus Postumium consulem eundemque flaminem Martialem ad bellum gerendum Africam petentem, ne a sucris discederet, multa dicta urbem egredi passus non est (Val. Max. I, 1, 2). Wie es bei einer solchen multae dictio zuging, sehen wir aus einem ähnlichen Handel im Jahre 190: Et in senatu et ad populum magnis contentionibus certatum, et imperia inhibita ultro citroque, et pignera capta et multae dictae et tribuni appellati, et provocatum ad populum est (Liv. XXXVII, 51, 3). An Stelle des Postumius gab man dem Catulus den Prätor Q. Valerius Falto als Befehlshaber bei.

Ammettiamo dunque con Luterbacher che Lutazio sia partito ad anno consolare inoltrato. Ma, in base a Polyb. I, 59, 8, dobbiamo assegnare cio al principio di una buona stagione (ἀρχομένης τῆς θερείας). Si deve quindi trattare di quella non del 242, ma del 241.

Invece Luterbacher dice:

Die Abfahrt des Catulus von Rom fand also erst zu Ende des Sommers statt: die Zeitbestimmung des Polybius dozouévne tię 980ɛias beruht auf Irrtum wie im Jahre 255.

Non voglio più oltre insistere per ribattere argomentazioni di questo genere. Le teorie sono giuste quando con queste si possono chiarire le fonti; non quando ci costringono a far man bassa sulle medesime 1). Roma.

1) Per una trattazione più particolareggiata della cronologia della prima punica, rimando il lettore al vol. I parte II, della mia Cron. Rom., di prossima pubblicazione.

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Spuren politischer Autonomie in Aegypten unter den Ptolemäern.

Von W. Schubart.

Unter den Staaten, die aus dem Erbe des grossen Alexander hervorgegangen sind, nimmt das ägyptische Königreich der Ptolemäer eine besondere Stellung ein. Denn während überall sonst die königliche Gewalt mit dem Vorhandensein zahlreicher politischer Verbände, vornehmlich griechischer Städte, zu rechnen hat und ihrer Autonomie gegenüber sich gewisse Beschränkungen auferlegen muss, tritt sie uns in Aegypten als unbeschränkte Machtvollkommenheit über Untertanen entgegen. Hier ist, so scheint es, kein Raum für selbständige Organisationen; auch den letzten Winkel erreicht die absolute Regierung mit ihrem dicht geflochtenen Netz königlicher Verwaltung, deren Werkzeuge die königlichen Beamten sind. Dieser Gesamteindruck gründet sich auf Beobachtungen verschiedener Art. Zunächst ist es eben die straffe Staatsverwaltung selbst, die keinerlei Ausnahmen zuzulassen scheint; die Papyrusurkunden zeigen uns immer und immer wieder den König, vertreten durch seine Beamten, als die maßgebende Instanz. Sodann weist man mit Recht darauf hin, dass es in Aegypten an autonomen politischen Gebilden fast ganz fehle ist auch die Stadtverfassung von Ptolemais nicht mehr zu bezweifeln und die von Naukratis so gut wie sicher, so wird sie doch gerade bei der Hauptstadt Alexandrien fraglich. Und darüber hinaus können wir autonome Griechenstädte in Aegypten nicht nachweisen, müssen vielmehr annehmen, dass es keine gegeben habe. Jedenfalls haben die Ptolemäer der städtischen Autonomie von vornherein nur eine begrenzte Verbreitung gewährt und auf diesem Wege eine staatliche Einheit in ihrem Lande erreicht, die sich zum Vorteil ihrer Machtstellung wesentlich von den Zuständen des benachbarten Seleukidenreiches unterscheidet.

Trotzdem lassen sich Unterschiede in der Stellung ihrer Untertanen nicht verkennen. Gerade die Papyrusurkunden haben uns gelehrt, dass der Grieche in Aegypten, namentlich im ersten Jahrhundert der Ptolemäerzeit, einen Vorrang vor dem Aegypter geniesst. Freilich scheint dieser Vorrang sich in eine Reihe von Privilegien für einzelne Personen oder auch einzelne Gruppen aufzulösen und darüber hinaus nur in dem höheren Ansehen der Griechen zu bestehen, also mehr einen gesellschaftlichen Vor

sprung als ein politisches Vorrecht zu bedeuten. Allein eine genaue Prüfung unseres in dieser Beziehung nicht sehr ergiebigen Materials wird, wie ich glaube, dazu nötigen, das allgemeine Urteil ein wenig zu ändern.

Versucht man, sich in die Anfänge der Ptolemäerherrschaft zu versetzen, so ist wohl nicht zu bezweifeln, dass die einwandernden Griechen zunächst die aus ihren Heimatsorten überkommenen Begriffe von politischer Selbständigkeit der лóg mitgebracht haben. Diese haften ihnen zum mindesten in der Form an, dass sie die Zugehörigkeit zu ihrer Vater-` stadt festhalten und sich Athener, Rhodier u. s. w. zu nennen fortfahren. Hierin liegt ein nicht ganz unwesentlicher Unterschied von der Art, wie man in Aegypten den Heimatsort zu bezeichnen pflegt, nämlich mit dлó; sogar der alexandrinische Jude ist ein Ἰουδαῖος τῶν ἀπ ̓ Ἀλεξανδρείας. Ausnahmen fehlen nicht; wie sie entstehen, zeigt das Nebeneinander von oi àлò Khɛoлáτgas und Khɛoлargeis (Pap. Reinach 10, 27). Am leichtesten ergeben sie sich begreiflicherweise da, wo es sich um bedeutende Orte handelt, die zwar nicht griechische zólag aber sonst wirkliche Städte sind, so z. B. bei Memphis und Theben; vgl. den Atoлoling und die Joлoking P. Lond. III 882 S. 13, 101 v. Chr. Soweit aber die Griechen nicht einer nóg, sondern einer anders organisierten Landschaft angehören, nennen sie sich Thessaler, Kreter u. s. w. Sie besitzen ausser ihrer durch die Einwanderung erworbenen Eigenschaft als Untertanen des Königs noch eine zweite, nämlich die Verbindung mit dem heimischen. Gemeinwesen, die nicht nur in der Abstammung, sondern auch in Gewohnheiten und Rechtsanschauungen, in politischen Begriffen besteht. Wenn neu einwandernde Scharen zum Unterschiede von dem alten Stamme ihrem Ethnikon ein is earporis hinzufügen und eine Gruppe von Neumakedonen" und dergl. bilden, so betonen sie damit zugleich wiederum ihren nationalen Zusammenhang 1). Die Tatsache, dass solche nationale Bezeichnungen sich durch Jahrhunderte erhalten haben, bedeutet an sich schon einen Widerspruch gegen eine völlig absolute Königsgewalt. Denn vom Standpunkte der königlichen Verwaltung aus wurden die Bevölkerungsgruppen nur durch ihr Verhältnis zur Regierung abgegrenzt; es gab Soldaten und Militärkolonisten. Beamte, Staatspächter, Basilizoi yɛwoyoì und dergl., es war aber gleichgültig, ob man es mit Makedonen oder Persern. mit Rhodiern oder Aegyptern zu tun hatte. Vielmehr: es wäre gleichgültig gewesen, wenn nicht der König eine weitreichende Rücksicht auf die nationalen Gruppen hätte nehmen müssen. Im Heere, der Stütze des Königs, konnte er keinenfalls die Landsmannschaften übersehen: er hat im Anfange die nationale Einheitlichkeit der Söldnerregimenter geachtet und später wenigstens die Namen bestehen lassen. Dies gilt nicht nur für die Griechen im engeren Sinne, sondern auch für eine ganze Reihe 1) Zu der hier vorausgesetzten Deutung von tis tuyor, vgl. meine Bemerkungen Archie f. Pap. V. 107.

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