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gettura di Claudio o al più della sua fonte, la quale non ha alcuna verisimiglianza, bisogna vedere se a questa congettura se ne può sostituire una migliore. Naturalmente non s'ha da cercare un personaggio della leggenda romana che possa avere avuto anche il nome di Mastarna: ricerche simili si potevano ben fare ai tempi di Claudio; ma esse disconoscono completamente la natura della tradizione conservata su quella età. Voglio semplicemente vedere se ha riscontro nella tradizione romana quel complesso di fatti che la tradizione etrusca collega con Mastarna. Ora la tradizione romana più antica ignora Mastarna, ma si accosta alla tradizione etrusca assai più che non apparisse a Claudio. La tradizione romana più antica riferisce più o meno velatamente che, cacciato da Roma L. Tarquinio Superbo, si era impadronito della città l'etrusco Porsenna. Non c'è chi non veda il parallelismo con la tradizione etrusca che ucciso Cn. Tarquinio, si era impadronito della città l'etrusco Mastarna. La differenza nel prenome del re romano e nel nome dell' etrusco mostra che, la tradizione è stata elaborata lungo tempo indipendentemente da una parte e dall'altra, e questo, nonchè scemarne, ne accresce il valore. In un punto fondamentale la tradizione romana appare più alterata della etrusca. Nella tradizione romana L. Tarquinio è cacciato dal popolo. Porsenna viene per rimetterlo sul trono, vince i Romani, impone loro condizioni onerose (Tac. Hist. III 72. Plin. N. H. 34, 139); ma di rimettere sul trono Tarquinio non se ne parla. Molto più logica è la versione etrusca secondo cui Tarquinio viene ucciso da Mastarna etrusco che gli succede. Quella romana pare un' alterazione dovuta alla vanità nazionale, mediante la quale si aveva anche il vantaggio di spiegare la caduta della monarchia.

Una traccia della originaria morte violenta di re Tarquinio ci è conservata del resto anche nella tradizione romana. Infatti Tarquinio Prisco e Tarquinio Superbo non sono che lo sdoppiamento di una stessa personalità leggendaria.'). Tutti e due hanno un fratello Arunte che muore prima che essi arrivino al regno. Tutti e due si occupano della costruziono del tempio di Giove Capitolino, l'uno con la preda di Apiolae nell'agro pontino, l'altro con la preda di Suessa Pometia. Ora è evidente. che Apiolae e Pometia, come ha visto acutamente il PAIS, non sono che due nomi di una stessa città. E misure rigorose per costringere i cittadini a lavorare alle loro costruzioni son narrate d'ambedue. E inoltre l'uno e l'altro usurpano il regno a tradimento, l'uno e l'altro hanno una moglie ambizioza che ve li spinge, ed il regno d'ambedue termina con una catastrofe in cui l'uno perde la vita e l'altro il regno. Beninteso con ciò non voglio punto negare che più Tarquinii abbiano regnato in Roma; ciò sarebbe tanto imprudente quanto l'affermarlo; ma voglio dire

1) Su questo punto basti rimandare a PAIS I 1 p. 346 segg.

che nelle leggende dei due Tarquinii abbiamo soltanto lo sdoppiamento di una leggenda unica. La morte violenta che dà occasione di salire sul trono ad un usurpatore ci è conservata nella leggenda di Tarquinio Prisco. Anzi nel Marce Camitlnas del dipinto vulciente si è voluto persino riconoscere uno dei figli di Anco Marcio che, secondo la tradizione romana, fecero uccidere Tarquinio Prisco. Questo è arbitrario. La tradizione romana ed etrusca, per quanto parallele, non sono poi cosi identiche nei particolari. Marce nel dipinto è prenome, mentre Marcio è gentilizio; e Camitlnas non si vede che relazione possa avere col nome d'Anco Marcio. E ad ogni modo l'uccisione di Tarquinio nel dipinto è per liberare il suo prigioniero Caele Vibenna, e non ha bisogno di altra motivazione. Se vi fosse realmente uno dei figli di Anco Marcio, dovremmo dire che si tratta di una seconda motivazione sovrapposta alla prima in omaggio alla leggenda romana.

In conclusione il confronto della leggenda etrusca e romana mi sembra assai favorevole ai partigiani del dominio etrusco in Roma; non troppo favorevole invece a chi nega che uno o più Tarquinii abbiano regnato nella città. E voglio qui notare che mi pare assai debole l'argomento principale con cui si nega ora da alcuni la storicità di Tarquinio. È noto come identificando Tarquinius con Tarpeius si è voluto trovare nel primo l'eponimo del monte Tarpeo. Ma questa identificazione va incontro a difficoltà dal punto di vista della fonologia. Un qu originario non è rappresentato mai in parole latine da p, salvo che si tratti di parole importate. Cosi Tarpeius sarebbe forma non latina, mentre sarebbe latina Tarquinius. Viceversa Tarpeius non ha riscontro fuori di Roma, mentre il nome di Tarquinius ha riscontro nella leggenda etrusca coi nomi di Tarchon e Tarchetius, nella città di Tarquinii e nei Tarchna di Caere, sia pure che la traduzione più corretta di Tarchna sia Tarquitius e non Tarquinius, il che del resto non può ammettersi senza riserva.') Chè se si riguardasse come originario il p, bisogna osservare che i pochi passaggi dip in gutturale nei dialetti italici son dovuti all' influenza d'una gutturale seguente (coquo, quinque). Quanto poi alla identificazione. di Tarpeia con la vestale Tarquinia (Plut. Poplic. 8), è interamente arbitraria: quel che v'è di comune tra le due è solo questo: che ambedue son chiamate vestali; ma ciò, come si vede, è troppo poco per ridurle ad una persona sola.

Un punto degno di nota è che mentre il nome di Mastarna è estraneo alla leggenda romana, vi è penetrato invece quello di Caele Vibenna. La ragione sta in ciò che esso offriva una comoda etimologia del monte Celio.

1) Infatti chi ha tradotto Tarchna con Tarquitius più che con Tarquinius (CIL. XI 3630) potrebbe aver avuto ottime ragioni indipendenti affatto dalle considerazioni filologiche.

Cosi alcuni riferivano con Varrone che Caele Vibenna fosse venuto in aiuto a Romolo contro Tazio, altri che il Celio gli fosse stato concesso da Tarquinio Prisco (Tac. 1. c. cf. Fest. s. v. Tuscum vicum). La leggenda romana pertanto non è che una leggenda etimologica. Nella sua stessa incertezza palesa soltanto che i Romani nulla sapevano di Caele. Quanto alla leggenda etrusca, manchiamo completamente di elementi per tentarne l'analisi, sebbene nostre fonti sulla leggenda etrusca dei fratelli Vibenna non sieno solo il discorso di Claudio e le pitture vulcienti. Uno specchio etrusco con iscrizioni (Etruskische Spiegel V tav. 127) e tre urne etrusche in cui è rappresentato lo stesso soggetto senza iscrizioni (Urne etrusche II 2 tav. 119 p. 255) ci mostrano Caco (Cacu) mentre si dilettava a suonare la lira in un luogo selvoso, minacciato da una imboscata dei fratelli Arle e Caile Vipina od anche assalito da costoro con le spade sguainate. Non entro nei particolari e non noto le parziali differenze di queste rappresentazioni. Basti rimandare a KÖRTE (1. c.) ed a PETERSEN (Jahrb. des Inst. 1899, p. 43 seg.). È appena credibile quanto KöRTe e PETERSEN si siano dati briga per conciliare il mito qui rappresentato col racconto dell'annalista Cn. Gellio (fr. 7 PETER) secondo cui Caco, mandato ambasciatore da Marsia a Tarcone re dei Tirreni, vien da questo fatto prigioniero e poi riesce a fuggire. Stando a PETERSEN Tarcone non ha voluto imprigionare gli ambasciatori alla sua corte per non peccare contro gli ospiti, ma, mentre erano di ritorno, li ha fatti assalire da due suoi satelliti, i fratelli Vibenna. Stando a KÖRTE i Vibenna avversari di Tarcone (Tarquinio) catturano il vate diretto al loro nemico e ne intercettano il messaggio. Dal punto di vista del metodo è da obbiettare che non v'è alcuna ragione per collegare il passo di Gellio con queste rappresentanze etrusche, e che l'una e l'altra combinazione sono in completa contraddizione col testo di Gellio. E del resto non è punto detto che nelle rappresentanze si tratti di semplice cattura; senza il passo di Gellio tutti avrebbero ritenuto probabilmente trattarsi di una uccisione. Par più metodico il ritenere che Caco, rappresentato come un incantatore venga in questa versione etrusca della leggenda fatto uccidere da due eroi nazionali, i fratelli Vibenna, come la leggenda romana lo faceva uccidere da Ercole.

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Orient oder Rom.

Stichprobe: Die Porphyrgruppen von S. Marco in Venedig.

Von Josef Strzygowski.

In einem Buche Orient oder Rom, Beiträge zur Geschichte der spät antiken und frühchristlichen Kunst habe ich nachzuweisen gesucht, dass nicht Rom, sondern der griechische Orient in Sachen der Kunst während der römischen Kaiserzeit der gebende Teil war. Es sei daher falsch von einer römischen Reichskunst zu sprechen und darunter zu verstehen eine Kunstströmung, die sich im 1. und 2. Jahrh. n. Chr. in Rom entfaltet und dann nach den Provinzen verbreitet habe. Wenn man die Bezeichnung „Römische Reichskunst" beibehalten wolle, dann müsste darunter jene Kunst verstanden werden, die noch während der römischen Kaiserzeit ihren Sitz in den hellenistischen Grossstädten hatte und auch in Rom blühte.

Ich suchte diese Aufstellung u. a. dadurch zu beweisen, dass ich für zwei der bekanntesten frühchristlichen Denkmäler Roms, die bisher als Belege der hervorragenden Bedeutung römischer Kunst zur Zeit Konstantins galten, ägyptischen Ursprung fesstellte. Es sind die grossen, jetzt im Vatikan stehenden Porphyrsarkophage der Mutter und einer Tochter Konstantins d. Gr.. Der eine stammt aus Torre Pignattara, dem Grabe der hl. Helena, der andere aus S. Costanza, dem Mausoleum der Konstantina. Beide haben Parallelen im Orient. Zu dem mit schweren Ranken, Putten und Vögeln geschmückten Sarkophage aus S. Costanza konnte ich vollkommen genau übereinstimmende Repliken und zwar ebenfalls aus Porphyr in Konstantinopel und Alexandreia nachweisen, wodurch bei Beachtung der Thatsache, dass das Material sicher aus Ägypten stammt, sich die Wahrscheinlichkeit aufdrängt, dass alle drei Exemplare in Ägypten entstanden und fertig von dort exportiert worden sind. Der HelenaSarkophag andererseits deckt sich in Stil und Inhalt der Darstellung derart mit einer zweifellos in Ägypten entstandenen Holzskulptur des Berliner Museums, dass auch für ihn die Entstehung im Ursprungslande des Porphyrs ausser Zweifel steht. Dargestellt ist auf beiden Denkmälern

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