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Tale il marmo inoperoso,

Che premea l'arca scavata,
Gittò via quel vigoroso,
Quando l'anima tornata
Dalla squallida vallea
Al divino che tacea

Sorgi, disse, io son con te.

Dopo una comparazione biblica, eccone altra omerica per la minutezza, moderna per la esattezza dei termini; in una strofe, per elezione e disposizione di parole, per pose di accenti, per rispondenza di versi, perfetta. Si risente, non si desta: scuote dalla testa, non rimove con la mano: dipartita, non staccata, anche perchè inaridita; lenta lenta vi ristě: tutto bello. Forse che nel primo verso Quale avrebbe suonato meglio di Come, anche per la corrispondenza all'altro termine della comparazione.

La strofe quarta è d'intonazione forte, ma non senza difetti di elocuzione. «Che è quell' aggiunto d' inoperoso dato al marmo, quasi avesse potuto far altro che stare inoperoso?» domanda il Ranalli; e mi par difficile rispondergli. Il Tommaseo scivola: «Inoperoso qui dice la facilità con cui vinse ogni ostacolo il Salvatore risorto. Il modo non è proprio, a dir vero ». Non doveva piacere nè anche al Manzoni, il quale vi scrisse sopra, nell' interlinea, faticoso.

«< E séguita domandando il Ranalli - vedestu mai delle arche non iscavate? » A questa opposizione risponde, parmi bene, un mio alunno, il sacerdote Francesco Masotti, così. « Si dà biasimo al Manzoni dell'aver dato ad arca l'ozioso aggiunto di scavata, non potendo essere arche che scavate non sieno. Ma per intendere la ragione di quell'epiteto, conviene pór mente alla particolar forma del sepolcro di Cristo, e all'antica maniera di sepolture ch'era in uso presso gli Ebrei. Costituivano il sepolcro di Gesù Cristo due diverse spelonche tagliate nella roccia, delle quali la prima serviva all'altra di vestibolo, e rimaneva aperta; l'altra, tutta scavata nel vivo della rupe profonda, era alta si che un uomo in piedi a pena poteva con la mano toccarne la sommità della volta, e vi si entrava dalla parte d'oriente per una postierla, alla quale venne apposto il gran sasso. In questa seconda spelonca fu deposto il corpo di Gesù Cristo, e propriamente sopra un loculo sca

vato nella parete settentrionale di essa, lungo sette piedi e alto tre palmi da terra. Tuttociò è conforme a quel che ne dicono gli Evangelisti), e al costume antico degli Ebrei attestatoci dal Genesi lad- · dove è detto del seppellimento di Sara (c. XXIII, v. 19): Atque ita sepelivit Abraham Saram uxorem suam in spelunca agri duplici, quae respiciebat Mambre; e dove narrasi della sepoltura di Abramo (c. XXV, v. 9): Et sepelierunt eum Isaac et Ismael filii sui in spelunca duplici.... Ciò posto, chi non vede che con l'aggiunto di scavata dato ad arca, il poeta ha voluto dinotare la peculiare forma della tomba di Cristo, per la quale essa differisce dalle consuete arche funerarie? Di quel sostantivo e di quell'attributo egli ha fatto una cosa sola per integrare la nozione del sepolcro di Cristo. E questo preciso accenno alla lettera dell'evangelio (quod exciderat in petra...; quod erat excisum de petra...; in monumento exciso) mi sembra opportunissimo in un inno sacro, che pei frequenti ricorsi delle parole della Scrittura, quali hanno luogo di fatto nella Risurrezione, ci guadagna di verità e di altezza. Quel che ci offende nell'epiteto adoperato dal Manzoni non è già la sconvenienza di quello al soggetto, ma piuttosto la collocazion sua nel verso: quel concetto, di sua natura accessorio, dell'essere il sepolcro incavato nella roccia, il poeta lo ha espresso con un vocabolo piano trisillabo, posto nella più cospicua parte del verso: cosicchè avviene, leggendo la strofa, che ci si bada un po' troppo ».

« E il gitto via - ripiglia ancora il Ranalli - non è locuzione da gittar nella spazzatura ? » Cotesto no: ma detto del coperchio dell'arca, rovesciato da una parte, nella istantaneità della resurrezione, non par proprio. Il gittar via la spada del Boccaccio è tutt'altro: nè gli esempi di simili locuzioni addotti dal signor Venturi, fino e dotto commentatore del resto, qui tengono. - Vallea è di Dante: Vede lucciole giù per la vallea (Inf., XXVI, 29); da cui l'Ariosto: Giunti nella vallea trovan le donne (Fur., XXXVII, 26); ma non

1) MATTEO, C. XXVII, v. 60: « Et posuit illud in monumento suo novo, quod exciderat in petra: et advolvit saxum magnum ad ostium monumenti... » MARCO, C. XV, v. 46: « et posuit eum in monumento, quod erat excisum de petra, et advolvit lapidem ad ostium monumenti ». LUCA, c. XXIII, v. 53: «<et posuit eum in monumento exciso.... ».

è della lingua italiana, è di formazione perfettamente francese: se non che, dice bene il Tommaseo, chi oserebbe mutarlo?

Nè anche al Tommaseo parve difendibile, o gli parve improprio e negletto, il divino che tacea, che, egli osservava, « non si può intendere se non del corpo, giacchè l'anima, e molto meno la Divinità, non erano quivi ». E pure teologicamente sta. Me lo afferma, con questa nota, il sacerdote Masotti: « Premettiamo una breve esposizione della dottrina della Chiesa intorno alla morte di Cristo. Il Verbo non dimise mai quello che una volta aveva assunto facendosi uomo. L'anima si separò dal corpo per morte, ma nè quella nè questo si disgiunsero dalla persona del Verbo e però dalla divina natura. Pertanto, morto Cristo, poteva dirsi ugualmente che la sua anima era divina, e divino il suo corpo, non quasi avessero divina natura, chè non l'ebber mai, ma come non sussistenti di altra sussistenza da quella del Verbo Dio. San Tommaso (Summa Theol., 3 p. q. 50, art. 2 et 3) cita a questo proposito le parole di Giovanni Damasceno (Ortod. Fidei, lib. 3, c. 27): Siquidem et corpus et anima simul ab initio in Verbi persona existentiam habuerunt: ac licet in morte divulsa sint, utrumque tamen eorum unam Verbi personam qua subsisteret, semper habuit.... Neque enim unquam aut anima aut corpus peculiarem atque a Verbi subsistentia distinctam subsistentiam habuit. Ora, poichè il corpo di Cristo nel sepolcro non sussisteva per sè, ma della sussistenza stessa del Verbo, al quale era unito, come fare a designare nella celebre strofa questo peculiar modo di sussistenza? Il Manzoni, omesso il nome corpo perchè non s'intendesse che fosse designato con quello un corpo umano sussistente per sè medesimo, fece dell'epiteto Divino, scritto con la d maiuscola, un sostantivo proprio, il quale nella sua indeterminatezza significasse appunto la misteriosa unione del Verbo al corpo di Cristo, e l'arcana sussistenza di questo in Lui. Cosi nel verso ultimo della strofe scrisse Te con lettera maiuscola. Nel salmo decimoquinto, dove è un manifestissimo accenno alla risurrezione di Cristo, al versetto 10 ricorre una frase in tutto analoga a quella adoperata dal Manzoni: Quoniam non derelinques animam meam in inferno nec dabis sanctum tuum videre corruptionem. Anche qui dell'aggettivo sanctum è fatto un sostantivo, col quale vuolsi certa

mente dinotare il corpo, in rispondenza all'anima, di cui è parola nella prima parte del versetto».

In

Che parola si diffuse

Fra i sopiti d'Isracle!

Il Signor le porte ha schiuse!
Il Signor, l'Emmanuele!
O sopiti in aspettando,
È finito il vostro bando;
Egli è desso, il Redentor.
Pria di lui nel regno eterno

Che mortal sarebbe asceso?
A rapirvi al muto inferno,
Vecchi padri, egli è disceso;
Il sospir del tempo antico,
Il terror dell' inimico,

Il promesso vincitor.

osserva il Tommaseo

« non manca

due strofe queste certamente la vita; nè è a dire che troppo il poeta insista sopra un' idea così grande: quello di ch' io dubito gli è, se tutte le frasi siano cosi forti di pensiero, come sogliono nel poeta nostro; se la meraviglia e l'affetto non lo porti ad un'abondanza di facondia che non è d'ordinario ne' suoi versi. Tutti que' titoli del Redentore son veri, son belli; ma il sospir del tempo antico non sarebbe egli vicino ai vecchi padri ed all'altro, o sopiti in aspettando? E il terror dell' inimico non sarebbe egli quasi tutt'uno col promesso vincitor? E quel promesso non accennerebb'egli già troppo all' idea contenuta nelle due strofe che seguono? Giacchè e nella strofa Ai mirabili veggenti, e in quella che precede alle due accennate, si vien toccando dello stesso portento. E per questo forse i due versi: A rapirvi al muto inferno, Vecchi padri, egli è disceso, par che vengano languidi in mezzo alla vivacità di quel lirico movimento >>. Cosi il Tommaseo: troppo acuto, per avventura, e sottile. All'ode, e specialmente al cantico dell'entusiasmo per la vittoria, bisogna lasciare un poco ondeggiar le briglie sul collo: già quel largo ondeggiamento della strofe in certi casi è una bellezza esso solo.

Ai mirabili veggenti,

Che narrarono il futuro,

Come il padre ai figli intenti
Narra i casi che già furo,

Și mostrò quel sommo sole,
Che parlando in lor parole,
Alla terra Iddio giurò:
Quando Aggeo, quando Isaia
Mallevaro al mondo intero
Che il bramato un di verria,
Quando assorto in suo pensiero
Lesse i giorni numerati,

E degli anni ancor non nati
Daniel si ricordò.

Di queste il Tommaseo giustamente: «Non pago d'accennare le profezie che annunziavano il grande avvenimento, d'accennarle con un verso o due (come avrebbe fatto un poeta più timido per non cadere in enumerazione prosaica), egli ne tragge quelle due strofe, Ai mirabili veggenti, dove ogni parola è poesia ».

Della settima nell'autografo rimangono, cancellati, due abbozzi e il principio d'un terzo:

1) Voi che a gente, ahi troppo sorda,

Ragionaste del futuro,

Come il vecchio si ricorda

Delle cose che già furo,

E le narra ai figli intenti,
Che l'ascoltano sedenti
Al notturno focolar.

2) Voi che un dì vi ricordaste
De l'età non nate ancora,

E rapiti le narraste

A l'Ebreo fedele allora,

Come narra i primi eventi

Il buon padre ai figli intenti
Al notturno focolar.

3) Voi profeti che alle genti

Favellaste del futuro.

Si vede che il poeta prima avea pensato a due strofe. Certo nella lirica tutto quel che si accorcia è guadagnato. Sacrificata dunque l'apostrofe, e va bene: una terza apostrofe dopo O sopiti e dopo Vecchi padri era troppo. Ancora: l'esclamazione Ahi troppo sorda nel primo abbozzo era forse troppo retorica: nel secondo l'età non nate ancora e l'ebreo fedele allora, con due rime fatte d'un avverbio della stessa formazione, erano versi da principiante: c'era

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