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ad accettare la cronologia preromana ad anni fissi, quale la segue il Pizzini, che assegna ad esempio la venuta dei Taurisci in Italia all'a. 2328 a. Cr., e il passaggio degli Etruschi nella valle padana al 1454. Tutti i due primi capitoli (pp. 15-23, 24-30) tendono a dimostrare che un secolo innanzi l'èra nostra i Cimbri scesero in Italia per la valle dell'Adige, e che C. Lutazio Catulo, mosso incontro a loro, pose una ala equitum di guardia là dove ora sorge Ala. Codesta derivazione della città da un castello romano omonimo, è, come ognun vede, fallace; poichè vogliasi pur concedere che i Cimbri tenessero la via del Trentino, ciò che oggi è quasi dimostrato insussistente (cfr. Archivio, II, 104 e segg.), nessun fatto storico, nessuna fonte antica, nessun monumento archeologico o epigrafico prova che Ala fosse stazione militare. Di più la etimologia del nome proposta dal Pizzini è contraria alle buone regole della toponimia latina: trovandosi una sola località in tutto il mondo romano, che abbia preso nome da un'ala di presidio. È l'Ala nova in medio dell'Itin. Anton., la quale nella Notitia Dignitat. Occidentis, p. 99, si denomina semplicemente Ala nova e risponde all'odierno Fischament della Pannonia. Colà, oltre l'assicurazione delle fonti topografiche, si trovò anche una epigrafe militare, mentre per l'Ala nostra mancano l'una e l'altra cosa. Se non che, ultima e decisiva prova che toglie ogni valore all'opinione del nostro A., si è il fatto che l'itinerario di Antonino Caracalla denomina ad Palatium ę non altrimenti la stazione romana. Ne dovette convenire il Pizzini stesso, ma poi egli si dimenticò di giustificare il doppio nome che secondo il parer suo la piccola mansione avrebbe portato in uno stesso tempo. Gli avanzi di antiche e robuste fabbriche trovati alle Bastie parvero all'A. traccie di opere militari romane, ma per vero essi non sono che residui di qualche fortilizio dell'alto medioevo. Onde venga il nome Ala non vogliamo ora discutere, sebbene ci sembri non improbabile la derivazione proposta dal Tartarotti, da un Halla di bassa età. Che ad Palatium si chiamasse dai Romani Ala, lo vorrebbe dimostrare l'A. nel ·capo III (pp. 31-40) e cerca perciò la vera posizione topografica di quella stàzione, che non risponde però alla giacitura dell'odierna città. Nel capitolo seguente (pp. 40-52) egli ricorda le poche e notissime epigrafi romane dell'Alense, e qui pure 'non è sempre esatto nè scevro da errori.

Lasciando da parte l'inutile capitolo V (pp. 53-56) sulle origini del Cristianesimo, veniamo subito al VI (pp. 57-74) dove, accanto a una quantità di errori, pur troviamo delle notizie assai utili. Infatti, mentre l'A. tenta inutilmente di dimostrare che la chiesetta di S. Pietro in Bosco sotto Ala sia antichissima e di origine longobardica, egli espone delle importanti congetture sulla postura topografica del campum cognomento Sardis, qui supra Veronam est, di Paolo Diacono (III, 29). Quanto alla questione della chiesa, mi spiace di dover affermare, che le ragioni addotte dal Pizzini sono speciose, se si vuole, ma destituite di ogni buon fondamento. La struttura stessa di quell'edificio non presenta alcuno dei caratteri propri alle chiese dell'alto medio evo o agli antichi oratori cristiani; nè per noi l'autorità del Soini e del p. Bresciani, che l'A. cita a questo proposito, è tale da poterne fare alcun conto. La figura del

Salvatore, che sta sopra la porta della chiesa, arieggia, è vero, in molte parti le frequenti rappresentazioni consimili delle basiliche cristiane antichissime, ma è anche certo che codesto è un tipo il quale si conservò stereotipo per molti secoli ancora, quasi fino al sorgere delle prime scuole di buona pittura in Italia. Come mai quindi affermare che quel dipinto è senza dubbio del VII secolo? Se a detta dello stesso Pizzini la chiesa fu tutta rifatta in bassi tempi ed a varie riprese, sarà molto più probabile ipotesi l'attribuirlo ai secoli XIII o XIV. Anche storicamente arriviamo alle stesse conclusioni, ed il mio egregio amico prof. A. Francescatti ha già notato (nel Raccoglitore di Rovereto, 1883, n.o 83) che la tradizione di un'origine longobarda di quella chiesa è priva di qualsiasi fondamento storico.

Quanto al Sardis, il Pizzini da una serie di documenti medioevali ha posto in chiaro che l'odierna villetta di S. Leonardo, molto al di sotto di Ala, presso il Borghetto, dove ancora un tratto di campagna si appella Prai Cerni, era chiamata nei secoli di mezzo Sarnes (928), Sarnis (1180), Sargnis (1202), Sarnum (1215). Parve dunque a lui di poter affermare che quello è il luogo dove accadde l'incontro di Autari e Teodolinda menzionato da Paolo Diacono. Se non che contro a questa opinione insorgono delle gravissime difficoltà. Il Pizzini non ha avvertito, che una mansione Sarnis è notata nella Tavola Teodosiana sulla destra dell'Adige, a 20 miglia romane da Trento verso Verona. E qui sta il guaio, essendo assolutamente impossibile mettere in accordo questi due dati. Meno difficile sarebbe lo spiegare come una stazione sia segnata nella carta sulla destra, mentre S. Leonardo sta alla sinistra del fiume. La Tavola Peutingeriana, lo sa ognuno, si potrebbe dire una grande carta per marce militari redatta dagli ufficiali dello stato maggiore di Teodosio, quando egli venne in Italia per combattere il suo competitore Massimo; essa presenta delle enormi inesattezze in tutto, meno che nella misura delle distanze. E se p. e. vediamo segnata Trento alla destra del Chiese, e l'Adige fatto sboccare nel Po, nessuna meraviglia sarebbe che anche la strada fosse stata delineata su l'una piuttosto che sull'altra riva del fiume. Dove è impossibile l'accordo si è nel numero delle miglia. Ecco le distanze da Trento a Verona secondo i due antichi itinerari:

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Non è quindi lecito sostenere che il Sarnis della Peutingeriana sia il Sarnis del medioevo, l'odierno S. Leonardo. Il primo sta quattro miglia romane (ossia chilometri 5 3) sopra di Ala (Ad Palatium), l'altro più di altrettanti al di sotto. Nè si può pensare ad errore degli amanuensi, perchè le due fonti si controllano a vicenda, quindi bisognerà assolutamente ammettere che si

tratti di due diversi luoghi. E così ritorna ad essere molto probabile la vecchia opinione del Tartarotti, alquanto però modificata, che cioè la stazione di Sarnis debba cercarsi presso alla Chizzola, dove un torrente si appella il Sorna, e più dentro il monte, lungo il corso del medesimo rivo, una frazione del comune di Brentonico si chiama Le Sorne. Almeno fino a nuove prove non vedrei altra via per togliere siffatta incongruenza.

Il libro del Pizzini si chiude con due buone ricerche. La prima (cap. VII, pp. 74-84) riguarda la Villa Asiana di un documento dell'881. Esposte le varie opinioni di Baretti, Borzi, Maffei, Tartarotti, Bonelli, Soini, Frapporti, i quali inclinano per Ala, Avio, Asiano presso Brentonico, e Sona nel Veronese, l'A. mostra di propendere per una delle due prime località; e se la cosa non può dirsi ancora definita, è certo che il Pizzini ha portato buoni argomenti a sostegno di tali ipotesi. L'ottavo ed ultimo capo (pp. 85-102) ricorda alcune brevi memorie di Ala nel medio evo, e la delimitazione del suo territorio fatta nel 1272 e ripetuta nel 1401: è quasi una larga prolusione alla storia di Ala nel medio evo, e nei tempi nostri.

Come abbiamo detto, resta tuttora inedita la parte migliore del grande lavoro del Pizzini, cioè una notevolissima raccolta di documenti storici, genealogici, e d'ogni specie, che illustrano le vicende di Ala nei tempi più vicini a noi. Rendendola di pubblica ragione, gli eredi del benemerito uomo farebbero certo cosa assai utile agli studi patri, ed onorevole alla memoria di lui, che non deve essere giudicato dal piccolo saggio edito ora.

PAOLO ORSI.

B. BENUSSI, L'Istria sino ad Augusto. Trieste, tip. Herrmanstorfer, 1883 (estratto dall' Archeografo Triestino). 4°, pp. XIV-353.

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Il dott. Benussi, professore di storia e geografia nel Ginnasio comunale superiore di Trieste, pubblicava già nel 1872 un breve Saggio d'una storia dell'Istria dai primi tempi sino all'epoca della dominazione romana. In seguito, «< continuando scrive egli nella prefazione all'ampia monografia presente nello studio delle cose nostre, mi trovai in un tale labirinto di notizie, o false o contraddittorie, o incerte, passate quasi in eredità dall'uno all'altro degli scrittori, da convincermi sempre più essere opera vana ed infruttuosa ogni tentativo di scrivere una storia dell'Istria, se prima non si raccogliessero tutte le sue fonti e non si assoggettassero ad un minuzioso esame critico ». Accintosi pazientemente a quest' improba fatica, egli ci presenta ora «< assieme all'esposizione particolareggiata dello svolgimento storico dell' Istria nel periodo che precedette l'Impero, anche una completa raccolta delle relative fonti, e, dove il bisogno lo richiedeva, l'esame critico delle medesime». Abbiamo dunque dinnanzi un'opera di notevolissima importanza, nella quale dobbiamo solo deplorare che l'A. non abbia tenuto ben distinta la raccolta delle fonti storiche dalla parte espositiva, ma abbia invece, rendendo la lettura del libro assai pesante, riportati quasi sempre in mezzo al testo o nelle note i passi degli antichi

scrittori ed anche non pochi brani inutili di storici recenti, senza poi almeno corredare l'opera sua di indici ampi, che ci facilitassero la consultazione.

L'Introduzione (pp. 1-29) tratta della geografia antica dell'Istria. Dopo averne esposte con chiarezza e precisione le condizioni oro-idrografiche, l'A. passa a studiare quale influenza la speciale conformazione del suolo abbia dovuto << esercitare sulle reciproche relazioni fra la penisola istriana e le finitime regioni terrestri », per conchiudere che l'Istria, ricca di porti e quindi facilmente accessibile dal lato del mare, aperta verso la pianura veneta, epperò esposta con essa alle invasioni dei popoli che dalle regioni del Danubio inferiore fossero scesi in Italia per il passo di Nauporto, dal lato orientale era invece chiusa da forti barriere.

Nel cap. I (pp. 30-42) il B. ricerca l'origine del nome Istria, combattendo con ragione le ipotesi di coloro che vollero derivarlo dal fenicio o dallo slavo, e dimostrando anche che non v' ha alcuna relazione fra Istriani e istrioni. Il prof. B. crede che l'Istria abbia ricevuto questo nome dai popoli vicini in seguito all'errore geografico per cui la si riteneva attraversata da un ramo del fiume Istro. Non tutti però s'appagheranno di tale spiegazione. L'Istria deve avere avuto un nome ben prima che si formasse quella leggenda geografica, e sarebbe strano che ogni traccia di quel nome primitivo sia sparita, È quindi più naturale ritenere che dal fatto che quella regione si chiamava Istria, originasse la leggenda che l'Istro per essa mettesse foce nell'Adriatico. · Ma non ci fermeremo a discutere in proposito, chè si tratta, a nostro avviso, di una questione bizantina. Piuttosto, seguiremo l'A. nello studio dell'etnologia istriana, cui egli dedica il lungo e importante capitolo III (pp. 61-196), dopo avere esposto nel II (pp. 43-60) i confini che l'Istria ebbe nei tempi antichi, e ricercato quali popoli abitassero le regioni contermini.

Nel capitolo sull'etnologia, ricordate le varie opinioni che furono emesse circa all'origine dei primi abitatori dell' Istria, il prof. B. si fa a discuterle minuziosamente. Con « un breve esame dei mutamenti subiti dal racconto del viaggio degli Argonauti in generale e della via tenuta nel loro ritorno in particolare » il B. prova « come il teatro di questi avvenimenti, limitato dapprima al mar Egeo ed al Ponto, venisse soltanto in progresso di tempo esteso ad altre regioni di mano in mano che i Greci ampliarono le loro cognizioni geografiche o rettificarono le antiche; come fosse totalmente ignoto alle più antiche tradizioni il viaggio di questi arditi esploratori lungo il fiume Istro dalle rive dell' Eusino a quelle dell'Adriatico; come il racconto di questo viaggio lungo l'Istro non risalga oltre il quinto secolo se pure non è di data ancor più recente; ed infine come la tradizione del loro approdo per la via di mare non sia peculiare dell'Istria, ma comune pressochè a tutte le coste del Mediterraneo »: egli esclude quindi a buon diritto la tradizionale origine colchida degli Istriani. L'A. avrebbe forse resa più geniale questa parte del suo lavoro, se avesse anche voluto ricercare quanta parte della leggenda degli Argonauti abbia durato e duri forse tuttora fra gli Istriani, e quali leggende locali le si ricongiungano: l'Egida del Muzio, che celebra appunto l'o

rigine colchida delle varie città istriane e in particolare di Capodistria, basterebbe a dimostrare che nell'attribuire alle loro città origini favolose gli Istriani andarono d'accordo con le altre popolazioni italiane, alle quali tanto piacque il favoleggiare

Dei Trojani, di Fiesole e di Roma.

Assai importanti sono le pagine in cui il B. dimostra falsa l'ipotesi di un'origine illiria degli Istriani, e stabilisce « che durante l'impero romano e posteriormente ad esso il nome d'Illirio non servi a dinotare una determinata nazione, ma un aggregato di provincie diverso nei vari tempi, e ch'ebbe un significato puramente amministrativo e non un significato etnografico ». Ai giorni nostri, nota il B., « tale appellativo di Illirio fu variamente adoperato; talvolta nel linguaggio amministrativo per semplificare una denominazione troppo complessa o precisare speciali istituzioni; talaltra nella letteratura slava per iscopi più o meno letterari ». Questi scopi più o meno letterari degli Slavi meridionali, sono, si capisce facilmente, scopi politici; tocca agli Italiani di non assecondarli confondendo, per ignoranza o per noncuranza, l'Istria con la Croazia nella vaga ed errata denominazione di Illirio.

Escluse l'origine colchida e la illirica, il professor Benussi dimostra con ottime ragioni che l'Istria ebbe la stessa popolazione primitiva della Venezia, e che i Veneti non furono, come si volle da taluno far credere, nè illirici ně slavi. Egli vorrebbe invece provare che furono Traci, e dare quindi agli antichi istriani un'origine tracica, accordandosi così in parte con quanto narra la leggenda degli Argonauti. Ma, ci permetta di dirlo, il suo ragionamento. 、 non ci ha qui troppo persuasi. Così, seguitando nell'esame del cap. III, se siamo pienamente d'accordo con l'A. nel ritenere che i Celti abbiano occupato l'Istria in tempi assai antichi, non saremmo egualmente disposti a veder prove di ciò nei castellieri istriani, e ancor meno in certe casuali analogie toponomastiche, e nelle strane etimologie di alcuni nomi locali istriani che il B. ci presenta. Come qualche filologo di alcuni decenni or sono, egli vede Celti dappertutto. Alla foce del Timavo c'erano due isolette ricche di sorgenti termali: ciò gli basta per derivare il nome del fiume « dall'unione delle due voci celtiche twym, caldo, e auon, fiume ». In Bottonegla, nome d'un affluente del Quieto (Nengon), egli vede una corruzione di Bot-Nengon, « cioè in celtico Nengon superiore (alto, montano), oppure, se vuolsi, di Butte-Nengon (Bi-tain-Nengon), cioè piccolo fiume Nengon »! Foibà non viene più dal latino fovea, « ma probabilmente dalla lingua celto-tracia della popolazione primitiva: Corn. fow, nel Walles fau, indicano grotta, caverna, nascondiglio di bestie feroci ». Anche il nome del povero re Epulo per lui « si manifesta indubbiamente di origine celtica: l'irico ep significa cavallo, ul è uno dei suffissi frequenti nei nomi di persona gallici,... quindi Epulo, Ep-ul, non vuol dir altro che possessore delle virtù del cavallo ». E così avanti.

Paziente e non inutile è il lavoro che il B. ha fatto raccogliendo di sulle antiche iscrizioni istriane i nomi e cognomi che sembrano indigeni e confron

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