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un buon padre troppo volgare. Sacrificata anche la imaginetta episodica della domesticità: figli intenti. Che l'ascoltano sedenti Al notturno focolar; o, meglio, abbreviata: ai figli intenti Al notturno focolar; sacrificata bene: non bisognava distrarre qui l'attenzione con imagini secondarie. Ma il raccoglimento in una strofe sola fu egli felicissimo? e non è troppo stretto a un tempo in imagine e troppo diffuso in parole,

Si mostrò quel sommo Sole
Che parlando in lor parole
Alla terra Iddio giurò?

Dovrebbe essere quel di Malachia (IV, 2): « Nascerà per voi tementi il nome mio, il sole di giustizia »; ma quel sommo sole è. delle abusate forme convenzionali, il che è ambiguo, il parlando in lor parole (per bocca dei profeti) è duro e languido. Un tratto ardito era, vi ricordaste dell'età non nate ancora ; e il poeta lo riprese nella strofe appresso in quel Daniele, che nel tratto caratteristico assorto in suo pensiero e nella purità della linea è di potente disegno.

Era l'alba, e molli il viso
Maddalena e l'altre donne
Fean lamento sull'ucciso:
Ecco tutta di Sionne
Si commosse la pendice;
E la scolta insultatrice
Di spavento tramorti.
Un estranio giovinetto

Si posò sul monumento
Era folgore l'aspetto,
Era neve il vestimento:
A la mesta che 'l richiese

Diè risposta quel cortese:
È risorto, non è qui.

L'autografo nel primo verso della strofe IX legge Era il vespro, corretto sopra nell' interlinea in Era l'alba; al terzo legge in su l'ucciso; e così la prima edizione. In margine poi all'autografo è notato Matth. XXVIII, I et segg. E infatti le due strofe. sono traduzione dell'evangelio secondo Matteo (XXVIII, 1-8), che in prosa quasi letterale suonerebbe cosi: « La notte del sabato, quando già si schiariva il primo giorno della settimana, andò Maria

Maddalena e l'altra Maria a visitare il sepolcro. Ed ecco si fece un gran terremoto, perchè l'angelo del Signore scese da cielo e venuto al sepolcro rovesciò la pietra e vi si pose a sedere su: e il suo aspetto era si come folgore e il vestimento sì come neve. E dalla paura le guardie sbigottirono e rimasero come morti. Ma l'angelo parlò e disse alle donne: Non vogliate temere, voi: io so che voi cercate Gesù il quale è stato crocefisso: egli non è qui, perchè è risorto come egli aveva detto ». « Tradurre il vangelo con tale maestria non è il maggior merito: ciò che lo mostra poeta, gli è l'ardire di tradurlo; è il pensiero di trarre poesia lirica da una narrazione ignuda, qual potrebbe farla parlando lo spositore più schietto». Così il Tommaseo. La strofe decima, specialmente ne' primi quattro versi, è mirabile per purità e schiettezza di parole, di suoni e di linee.

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IV.

Nelle strofe sin qui percorse la leggenda evangelica fu compenetrata, svolta, cantata per ogni sua parte e in tutti i suoi spiriti; ma il sentimento è sempre individuale, è il sentimento della fede cristiana rimeditato con ardore da un animo del secolo decimonono aspirante a diffondersi, è il particolare tendente a divenire universale per forza d'arte, anzi che il sentimento diffuso dal popolo nell' individuo, l'universale facentesi artisticamente particolare. Difficile per ciò, se pur non impossibile, trovar paragoni all'inno manzoniano nei cantici d'un cristianesimo più popolare. La religione ebbe in Italia due età segnalate da manifestazioni e fioriture diverse: più prossima, del cattolicesimo nazionale dal secolo XII a oltre mezzo il XV: più lontana, del cristianesimo romano nei tempi barbari. I cantici latini e i primi volgari del cattolicesimo nazionale, spirando su dai grandi peccati e dai grandi terrori del medio evo, amavano ancora avvolgersi nelle tenebre della dissoluzione e nel fumo dell' inferno: le laudi toscane del trecento e di poi naturaleggiano il Natale, la Vergine, altri santi e altri misteri; ma della Resurrezione non un canto degno. A pena madonna Lucrezia Tornabuoni, moglie di Piero de' Medici e madre di Lorenzo il Magnifico, la ispiratrice, dicono, e l'ascolArchivio storico per Trieste, l'Istria e il Trentino

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tatrice del Morgante, ha una laude sulla discesa di Cristo al Limbo, da cantarsi come Ben venga maggio, della quale alcune strofe riecheggiano con franca armonia il trionfo spirituale che la gran preda - Levó a Dite del cerchio superno.

Ecco il re forte,

Ecco il re forte!
Aprite quelle porte.
O principe infernale,
Non fate resistenza:
Gli è il re celestiale,

Che vien con gran potenza;
Fategli riverenza,

Levate via le porte.

Chi è questo potente

Che vien con tal vittoria?

Egli è il Signor possente,

Egli è il Signor di gloria
Avuto ha la vittoria,
Egli ha vinto la morte.
Egli ha vinto la guerra
Durata già molt'anni;
E fa tremar la terra,
Per cavarci d'affanni:
Riempier vuol gli scanni,
Per ristorar sua corte.
E vuole il padre antico,
E la sua compagnia:
Abel suo vero amico,
Noè si metta in via:
Moisè qui non stia:

Venite alla gran corte ').

Di quella più antica età è notevole in raffronto a questo del Manzoni, un nno: è l'autore di esso, Paolino patriarca di Aquileia nel secolo VIII; la cui santità è venerata su gli altari, ma la fama di poeta giace oscura ne' dotti e polverosi volumi del Madrisio e del Liruti 2). Di quella coltura letteraria ed ecclesiastica,

1) Laude spirituali di Feo Belcari, di Lorenzo de' Medici e di altri, Firenze, Molini e Cecchi, 1863, pag. 73.

2) Sancti patris PAULINI PATRIARCHAE AQUILEIENSIS Opera: coll. Ioann. Franc. · Madrisius, Venetiis, 1737, ex typographia pitteriana. - LIRUTI, De' letterati del Friuli, t. I, pag. 201 e segg.

romana e cristiana, che Carlo Magno volle ravvivare nel rinnovato impero cristiano-romano, di quel primo, se mi è lecito dirlo, rinascimento, come italiani furono nel senso della romanità gli spiriti, cosi furono italiani gli instrumenti. La gloria, o, per dir meglio la rappresentanza officiale fu presso Alcuino; ma i più efficaci scrittori della rinnovellata cultura furono: Paolo di Varnefrido, nato in Cividal del Friuli, educato in corte degli ultimi re longobardi, venuto poi a corte di Carlo Magno, morto a Montecassino circa il 799, longobardo di nobile gente romanizzato: coetaneo di lui, Paolino d'Aquileia, romano anche d'origine: Teodulfo, chiamato in Francia da Carlo, dove sotto lui e il successore visse vescovo d'Orléans, e, dopo aver parteggiato per la ribellione italica di Bernardo, vi mori nell' 821; goto romanizzato. Rappresentano, si può dire, i tre elementi formatori del nuovo popolo italiano nei tempi barbarici; unificati, come sono tutti tre, nella coltura che salvò i latini e trasformò i barbari; tutti tre affratellati nella religione, che sola era la coltura. Paolo di Varnefrido, lo storico classico, Teodulfo, il poeta classico, sono la giovine barbarie che si rifà nell'arte antica e rifà l'arte antica; il romano Paolino ha invece qualche vivacità e schiettezza, come un movimento del vecchio popolo italiano che ringiova

nisce.

Nato circa l'anno 730 nel distretto di Aquileia, o più largamente nel Foroiuliese, Paolino, nel 776, quando Carlomagno combattè ed abbattè il ribelle Rodgauso duca del Friuli, era professore di lettere, poi che il re franco con diploma segnato in Ivrea a' 17 di giugno di quell'anno concedeva certe terre di un Gualdandio, settatore del duca ribelle, a Paolino, viro valde venerabili artis grammaticae magistro: nello stesso anno Paolino fu anche sollevato alla sede patriarcale d'Aquileia. Da allora in poi, egli fu l'uomo nel quale Carlo riponeva ogni sua fiducia per le cose della religione; fu l'uomo cui Alcuino ammirava sopra tutti per la salda dottrina della fede e per la eloquenza. A lui si rivolgeva Carlo sottomettendogli dubbi e chiedendogli avvisi per regolarsi negli affari della Chiesa e dello Stato; a lui ordinava di scrivere contro le eresie di Felice vescovo d'Urgel e di Elipanto vescovo di Toledo. A lui si rivolgeva Alcuino confortandolo a scrivere

sui riti del battesimo, e mandandogli certi piccoli enigmi assai futili in esametri da indovinare; e lo salutava: « o pastor electe gregis et custos portarum civitatis Dei, qui clavem scientiae potente dextera tenes et quinque lapides limpidissimos laeva recondis >> ; e gli diceva con quel suo pessimo tumore di figure: «< Ad te omnium adspiciunt oculi, aliquid de tuo affluentissimo eloquio coeleste desiderantes audire et ferventissimo sapientiae sole frigidissimos grandinum lapides qui culmina sapientissimi Salomonis ferire non metuunt per te citius resolvi expectantes ». Nè ci fu sinodo in Francia, in Alemagna, in Italia, a cui Paolino o per ordine di Carlo o per suo zelo non intervenisse; nè questione o affare ecclesiastico del quale non avesse parte. Fu legato apostolico al sinodo d'Aquisgrana tenuto l'anno 789 per la restituzione alle chiese dei beni usurpati: fu al sinodo di Ratisbona (792) e di Francoforte (794) contro l'eresia urgeliana: raccolse egli stesso un sinodo in Cividale del Friuli l'anno 796 e un altro in Altino l' 803 per la conservazione della fede e la riforma dei costumi. Mori nell' 804. Oltre il simbolo e i canoni del concilio foroiuliese, rimangono di lui il Liber exhortationis, parenesi religiosa e morale, a Enrico duca del Friuli; il Sacrosillabo contro l'eresia di Elipando in nome del sinodo di Francoforte; i tre libri contro Felice primo autore di quella cresia e maestro di Elipando; lettere e carmina.

Degli undici carmi sol uno, De regula fidei, è didascalico ed in esametri; gli altri sono cantilene, e i più inni sacri. Di questi uno, De cathedra romana Sancti Petri, in tetrastici di giambici quaternari, che è il metro più usuale agli inni della Chiesa; gli altri sono tutti di giambici senari, ma in diverse composizioni di strofe; parecchi a strofe di cinque versi, che è il metro degli inni di Prudenzio; altri a strofe di tre versi chiuse ognuna con un adonio, quasi una contraffazione della strofe saffica, ed è una forma metrica che non trovo usata da altri. I senari sono composti a orecchio, con un gran disprezzo o un pieno oblio della quantità latina (Dōminūs, admoniti, resplendere); ma con un vivo senso del ritmo e un vivissimo effetto ritmico.

Le due sole cantilene di argomento non sacro sono lamenti. Uno, sulla distruzione d'Aquileia: l'afflato della tradizione epica

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