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UN PASTORE SCHIAVONE

E UNA LETTERA DI NICCOLÒ TOMMASEO

Al prof. Paolo Tedeschi.

Egregio signore,

Inviando all' Archivio storico per Trieste, l'Istria e il Trentino una curiosa scrittura, da me già tempo promessagli, di Niccolò Tommaseo; col gentile permesso inviandola del degno suo figlio Girolamo; mi è venuto il pensiero di preporvi il nome di Lei. E sa Ella perchè? Se io Le dicessi, perchè Ella ha più di una volta, con parole di lode e di affetto generose, parlato di me, e raccomandato agli studiosi italiani anche della sua cara Istria qualche mio libro, sarebbe una ragione alquanto meschina, e di quelle che il men male è dissimularle. Le dirò invece, che in un fascicolo di questo medesimo Archivio (II, 33) scrivendo Ella con garbata dottrina dell'istriano frà Sebastiano Schiavone da Rovigno, maestro di tarsie nel secol xv, ebbe occasione di toccare uno de' due punti, intorno ai quali io dimandai, e il Tommaseo con quella scrittura rispose. Piacque poi a lui tener piuttosto dietro all'altro, od anzi girargli e rigirargli intorno con quella sua inesauribilità di digressioni, allusioni, avvicinamenti, dilungamenti, confronti, antitesi, bizzarrie, che caratterizzano parecchie delle sue minori scritture.

Gli avevo io dimandato: I manoscritti dell'Orfeo (del vero Orfeo improvvisato a Mantova dal Poliziano, che vuolsi distinguere dal rifacimento) fanno schiavone il pastore che, accodato a Mercurio, finisce di «< annunziare la Festa », cioè la Rappresentazione, cosi:

Seguita un Pastore schiavone:

State attenti, brigata; buon augurio:
Chè di zavolo in terra vien Mercurio.

Nelle stampe invece il pastore è solamente pastore, e dice:

State attenti, brigata. Buono augurio:

Poi che di cielo in terra vien Mercurio.

Ora, poichè fra pastori è la scena e in Tracia, può credersi che il toscano poeta abbia con quella denominazione di «< schiavone », di per sè non determinatissima, voluto liberamente volgarizzare il classico «< trace»? ed invero quasi tutto l'Orfeo, dico il legittimo ed originale, è un volgarizzamento d'idee e parole classiche. Ciò posto, quella parola « zavolo » potrebbe esser nome proprio di qualche monte (donde Mercurio calasse volando) in paesi traci o finitimi? può ravvisarvisi qualche montagna di terre slave? Perchè poco mi persuadeva una congettura proposta, bensì molto dubitativamente, dal Carducci: che fosse di qualche dialetto schiavone la voce << zavolo » in cambio di « cielo ». E poi: fosse pure quello un vocabolo schiavone; rimaneva sempre a spiegarsi perchè quel pastore doveva parlare schiavone.

Però non sapevo io, quando così conversavo col venerando Dalmata, che quel distico dei manoscritti sin allora noti, è null'altro che un corrompimento della genuina lezione conservataci dal codice mantovano; dove il pastore non solamente è schiavone («< Segue uno Pastor schiavone »), ma parla altresi un italiano contraffatto e bisbetico, di questo tenore:

State tenta, bragata; bono argurio :

Chè di cievol in terra vien Marcurio.

Corruzione, dunque, e lo « zavolo » invece di «< cievolo » (con che cadono tutte le mie suspicioni geografiche), e lo avere ridotto a italiano normale quel che l'Autore espressamente volle linguaggio esotico e mostruoso e, insomma, schiavonesco. Ma il codice di Mantova, che io poi feci conoscere, era allora ignoto e a me e agli altri studiosi del Poliziano. Perciò in quello` « zavolo » c'era quanto bastava (ahimè, basta spesso assai meno!) per scervellarvisi sopra, com'io andava facendo, ingegnosissimamente; e per ingegnosità non curandomi (me n'accorgo oggi, e il Tommaseo temo non se n'addesse per cortesia) che volendo « zavolo » nome proprio di monte, quel compimento «< in terra » perdeva molto a perdere un

Archivio storico per Trieste, l'Istria e il Trentino

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correspettivo il quale, per alto che fosse e per volarne che Mercurio facesse, non fosse più il «< cielo ».

Il Tommaseo, quanto a un possibile monte Zavolo, si strinse nelle spalle; quanto al pastore schiavone più o meno trace, ne prese occasione a discorrermi, con l'attraente dottrina ch'ei soleva, intorno agli Slavi..... Nè io prolungai troppo il colloquio; dovendomi di leggeri parere, che a cose più degne che non fosse il mio capriccioso quesito, potesse il valentuomo nell'alta sua mente far luogo. Ma com'egli ci trovava posto per tutto, pochi giorni dopo mi vedo arrivare una sua lettera di ben otto facciate, lungo le quali, quasi ad erudito sollazzo, aveva tessuta intorno al mio « zavolo », con tenui e brillanti stami, la tela di cose molte e svariatissime, ch'Ella e i lettori dell'Archivio qui sentiranno. Le quali, per quanto si fondino tutte sulla induttiva illustrazione di una parola, che oggimai apparisce storpio di amanuensi e null'altro, spero tuttavia riusciranno, se non altro, piacevoli a leggersi; e le raccomanda il nome del Tommaseo.

Io stesso poi, facendo pel primo, sui documenti, la storia della recitazione dell'Orfeo nel 1471 in Mantova, scrissi, que' pastori, secondo la favola, Traci, averli il Poeta chiamati, con moderno ampio vocabolo, Schiavoni; e che quel distico del pastore schiavone, in quella lingua a modo suo a uso i Lanzi de' Canti carnascialeschi, forse sono veramente sulla bocca di qualche cortigiano o servitore schiavone, che del suo barbaro italiano desse spettacolo ai padroni, cioè ai Marchesi di Mantova e al Duca di Milano, in quelle loro feste del 71. Nè disdico ciò che scrissi: e volendo pur cercare una positiva interpretazione dello « schiavone >> polizianesco, sarebbe opportuno lo addurre dal Giambullari (Istoria di Europa, II, vп) i nomi e confini respettivi della « Tracia, chiamata oggi la Romania », della « Macedonia, in buona parte detta Albania», e della « Schiavonia, da' Romani detta lo Illirico », la quale «per confini ha da ponente l'Istria, da tramontana le due Pannonie, oggi l'Austria e l'Ungheria, da levante la Bossina, e da mezzogiorno il mare Adriatico, quanto egli è da Pola città insino a Durazzo; intendendosi però compresa con essa la Dalmazia ». Ma quando Ella, in proposito del frate benedettino suo compatriotta, e contemporaneo del Poliziano (anzi frà Sebastiano, proprio in

quelli anni, si trovava negli Olivetani di Firenze), interpretando l'aggiunto « Schiavon » che gli è dato nei documenti, ricorda <«< come i Veneziani con tal nome di scherno indicassero tutti gli abitanti di là dall'acqua » ; e quando ricorda la Riva degli Schiavoni, sulla quale « anche oggi scaricano legna i trabacoli di Parenzo e di Rovigno »; mi pare che chiarisca molto semplicemente e dirittamente quella scappata di messer Angelo, e riduca al suo giusto valore la interpretazione etnografica da me discussa verbalmente col Tommaseo. Conchiudendo, mi sembra argomentarsi da tutto ciò siccome molto probabile, che veramente uno schiavone (o istriano o illirico o dalmata che si fosse), un vero e proprio « schiavon » della corte mantovana, fosse il recitatore di quel distico bizzarro '). E dicendo anche istriano, mi sovviene un altro passo del Giambullari (V, XIV), secondo il quale gli antenati di V. S. « se ben parlano italiano, per la maggior parte sono Schiavoni; e, per la testimonianza di Pio secondo, e l'una e l'altra favella hanno sempre famigliare ». Su di che Ella avrà giustamente che dire, anche in nome de' suoi antenati: ma la etnografia di papa Pio e del canonico Pierfrancesco fa a noi, per questa volta, testo autorevole più d'un trattato moderno, poichè si tratta di trovar l'occasione o il motivo e gustare il sapore di cotesta, ridiciamola, scappata, d'un loro pressochè contemporaneo. Sulla quale il Carducci, nella sua edizione de' due Orfei, annotava: «< Che c'entri lo schiavone, nè io so trovare nè seppe il p. Affò...». Ma il buono e dottissimo settecentista padre Ireneo Affò, il quale avea preso per l'Orfeo autentico il rifacimento dell'Orfeo, e le eleganze del rifacimento (apposte, e di seconda ed altrui mano) per la dettatura originale di messer Angelo, non poteva, anche trovandone un esteriore perchè, gustare nell'intrinseco quella ed altre rudi o ardimentose semplicità della Rappresentazione toscana, quale veramente scaturi, pressochè improvvisa, dalla vena del giovinetto poeta. Ben altro giudicatore il Carducci: con cui molto mi piacerebbe rivagliare queste minuterie illustrative d'uno scrittore, sul quale

1) Il corrotto volgare messo dal Poliziano in bocca al suo pastore, più che all'italiano quale suona sulle labbra degli Slavi dell'Istria, che lo parlano tutti e non tanto male, somiglia a quello dei marinai slavi della Dalmazia (N. d. D.).

avemmo comuni, ahimè venti e più anni or sono!, le ricerche e gli studî. Scappata, del resto, pareva anche al Tommaseo; e per giunta, romantica.

È poi notabile, al caso nostro, che quell'appellativo « schiavone >> facesse spesso e volentieri le spese di scherzi e motteggi sopra parlanti italiano maldestri o bislacchi o spropositati; come il « raugeo» delle commedie la parte del forestiero più o meno goffo. Scherzi e motteggi, che par quasi bravare il battagliero concittadino di lei, Girolamo Muzio, quando, nel capitolo III della Varchina, ricorda il Fortunio, il quale «< fu schiavone », e fu il primo a scriver regole di nostra lingua, e «ad insegnarla ai toscani ed a' Fiorentini ecc. ». Fra le baie del Caro addosso al Castelvetro c'è anche questa (Apologia, 48): « Dirò che se esso Caro dicesse Caro esso, e madre essa, alla schiavonesca, io direi che fosse un Castelvetro ancor esso ». Il Tasso al suo Scipione Gonzaga (Lettere, I, 188), parlando delle limitate attitudini del volgar toscano agli iperbati, in confronto col latino, « chi direbbe » dimanda, alludendo a una frase virgiliana, « transtra per, che non paresse schiavone?» Nè so se a questi e consimili motteggi cinquecentistici avesse il pensiero il Leopardi, quando della lingua dei topi diceva, nei Paralipomeni (VII, 7), «Che con l'uso de' verbi alquanto vario Alle lingue schiavone era sorella». E neanche so se sia qui opportuno ricordare un personaggio del Goldoni (Le Done de casa soa, IV, 11), un mercante levantino, che discorre per infiniti: «Mi te voler parlar... Come chiamar ti?... », e così di seguito: or bene, quando costui viene sulla scena la prima volta, in casa di sior Gasparo, questi, al sentirsi apostrofare da quella nuova figura, dice fra sè: « El xè molto compito! El sarà levantin, o pur qualche schiaon; De quei: Tasé vu, can; e parla ti, patron ». Ma quello che so dicerto, è che è tempo di far punto, e trascrivere fedelmente la lettera del Tommasco.

Mi conservi il suo affetto, e mi creda

Firenze, nell'autunno del 1884.

suo dev mo ISIDORO DEL LUNGO.

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