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(il signor Bottea vorrebbe si dicesse del Nosio) nel 1407 e 1477, l'A. non ha fatto che ristampare un suo articolo, già pubblicato nell'Archivio Trentino (a. II, fasc. 1), senza riportare però il bello e interessante documento che contiene i privilegi di quelle valli (cfr. in questo Archivio, II, 275); così egli ha ristampato un altro suo articolo, che vide prima la luce nello stesso periodico (a. I, fasc. 1), nel quale descrisse la parte presa dagli abitanti di quei paesi alla guerra rustica del 1525. E non vi ha aggiunto nulla, se non forse alcune parole per iscusarsi dell'appunto mossogli anche in questo Archivio (II, 273) di non aver citato che troppo sommariamente le fonti cui attingeva. «< Osservo - egli scrive - che le cose cui mi accingo ad esporre circa l'andamento e l'esito del moto rustico, furono da me fedelmente desunte dagli atti autentici conservati negli Annali Alberti, nei documenti della biblioteca civica di Trento, e negli atti comunali e consolari di quella città; e perciò mi credo dispensato dal produrre singolari citazioni » (pag. 63). Ma in ciò appunto nessuno potrà mai consentire con lui, poichè il metodo qui esposto è assolutamente difettoso, non solo perchè toglie il modo di controllare i giudizî o le osservazioni dell'autore, ma perchè stanca e lascia insoddisfatto chi legge, il quale intravvede moltissime cose senza poterle poi afferrare. Così, per esempio, là dov'egli tocca della leggenda del passaggio di Carlo Magno per la Val di Sole e per la Rendena, ignorando, pare, ciò che ne scrisse il Malfatti nella Strenna Trentina (cfr. Archivio, I, 327, e II, 262), il Bottea accenna ad un curioso documento del 1446, e invece di pubblicarlo, come ognuno giunto a quel luogo deside-` rerebbe avesse fatto, e' si perde in biasimarne il testo, perchè vi « apparisce tale serqua di errori, di anacronismi e di ridicolaggini, che per conto di esso la leggenda dovrebbe senz' altro riporsi nel numero delle favole » (pag. 27-28). Ma è appunto di codesti «< anacronismi », di codeste « ridicolaggini », che si avvantaggia la conoscenza delle tradizioni; e nel caso nostro importava tanto più di vedere quel documento, perchè esso non è di molto anteriore ai freschi che rappresentano il passaggio di Carlo sulle chiese di Pinzolo e di Carisolo. Della storia della Valle dopo la sollevazione dei rustici, l'A. si sbriga con poche parole, dicendo di non aver trovato che poco o nulla di interessante; e meniamogli pur buona l'asserzione, ma per amor dell'economia del volume non possiamo far a meno di notare che delle sessanta pagine circa, le quali compongono questo capitolo, che è, come ho detto, di tutto il libro il più importante alla storia, quaranta sono occupate dalle tre rivolte sunnominate; ed è sproporzione troppo evidente.

D'un particolare interesse sono il capitolo quinto (Regime interno), il sesto (Privilegi della Valle) e il settimo (Collette), nei quali avremmo desiderato qualche cenno di più sulla costituzione dei comuni rurali e su gli statuti e deliberazioni delle Regole, però che ne sarebbe uscita chiara la conoscenza di quella società. Anche, sarebbe piaciuto di trovar qualche parola intorno alle assemblee comunali della Valle di Rabbi, presiedute, come dice l'A., dai Signori di Caldesio e poi da quelli di Tono; nelle quali potevasi forse studiare l'influenza ch'esercitarono colà i feudatarî sui popolani.

Dopo due altri capitoli, abbastanza ricchi di notizie, sulla Condizione religiosa e sulle Chiese e conventi, ne troviamo uno, il X, sui Castelli. Vi si parla di quelli di Ossana, di Mezzana, di Piano, di Malè, di Caldès, di Livo, di Altaguarda, del Tonale e di altri minori. L'A. continua ad assimilare i quattro primi coi castelli Tesana, Semiana, Appianum e Maletum, citati da Paolo Diacono come distrutti dai Franchi nella invasione del 590, contro l'opinione del Malfatti, che appunto in questo Archivio (vol. II, fasc. 4) tentò di dimostrare essere i Franchi discesi dalla Valle Venosta anzichè dal Tonale. Io non metterò bocca nella questione, ma dirò tuttavia che certe osservazioni opposte al Malfatti dallo stesso Bottea in un suo articolo (I Franchi nella Val di Sole, nell'Arch. Trentino, anno III, fasc. 1), osservazioni ripetute anche qui nel volume, non mi paiono davvero « gravi » quali le crede l'A. Il quale identifica il Semiana di Paolo Diacono e l'odierno Mezzana con queste poche parole: << Il mutamento del nome è semplicissimo, avendosi (!) sostituito alla voce latina semi, l'equivalente italiano mezzo »!

Seguono due altri capitoli sulle Famiglie nobili e sugli Uomini illustri, fra i quali il cardinale Ugo Candido, che ebbe tanta parte nella storia dello scisma ecclesiastico dell' XI secolo, e quel Iacopo Acconcio (o Conci) di Ossana, che gli studiosi della storia della filosofia non possono non conoscere 1). Ma del famoso Cardinale io non so quanta fede si possa prestare alla tradizione che lo vorrebbe Solandro e precisamente della famiglia dei signori di Caldesio; certo l'argomento meriterebbe di essere studiato, ma senza il preconcetto desiderio di assicurare al Trentino una gloria di più.

Il volumetto termina con un utile Elenco dei parrochi di Malé, dal più antico di cui s'abbia notizia (1211) ai contemporanei.

E ora una considerazione generale. È strano che l'A., pur descrivendo le gravezze, le calamità e il disordine portato anche nella sua valle dal dominio dei principi vescovi, si ostini a lodare tuttavia quel reggimento. Capisco benissimo che si possa scusare Bernardo Clesio della poco mite sentenza con la quale chiuse la rivoluzione del 1525, ma non intendo come si voglia encomiare un governo, tenuto per lo più da persone straniere, inette, che non conoscevano talvolta neanche la lingua del paese, pronte sempre a favorire i loro compatriotti piuttosto che i sudditi; un governo, dove la confusione straordinaria delle cose ecclesiastiche e delle civili non serviva che a danneggiare il retto andamento delle une e delle altre; dove le debolezze del principe, i nemici esterni, le continue lotte intestine e la malizia o ignoranza degli ufficiali mettevano tutta la cosa pubblica in continuo scompiglio. Le tre sollevazioni delle quali è parola in questo volume ne sono la prova migliore; e descrizione più eloquente di quella contenuta nei Gravami presentati al convegno di Marano non se ne potrebbe desiderare. Se lo spazio me lo concedesse li riporterei per intero; ma non posso ristare dal riferir almeno queste pietose parole: «< Zà da lungo tempo in spirituali et temporali sono stade molte 1) A uno studio sull'Acconcio, che speriamo di vedere quanto prima pubblicato, attende da qualche tempo il prof. Quintilio Tonini.

cative usanze cresude, et per questo il verbo di Dio retardato, l'onor di Cristo et il ben del prossimo dismentigado, et solamente attendudo et sollecitado el ben proprio et non el ben comune », ecc. (pag. 67).

Anche, mi permetta il signor Bottea ch' io mi dolga della sua lingua e del suo stile, che in troppi luoghi lasciano assai a desiderare, e talvolta con vero danno dell'intelligenza. Chi mai, ad es., potrà intendere rettamente quel parolaj, che si trova a pag. 47, e che vorrebbe essere traduzione del dialettale parolotti, mentre in effetto significa tutt'altra cosa?

Ma pur con le sue mende, questo libro gradirà certo, e meritamente, a quanti si occupano di storia trentina; e anche più che ad essi, a quei bravi valligiani, che lo leggeranno compiacendosi delle gesta dei loro antenati. Onde dobbiamo essere sinceramente grati all'A., e augurare che egli, non scorandosi innanzi alle difficoltà, nè temendo per qualche errore commesso, che è sempre perdonabile a chi lavora con diligenza e con retti intendimenti, voglia continuare nella buona opera sua.

G. PAPALEONI.

ANNUNZI BIBLIOGRAFICI

G. ALBINI, Il Modesti e la «Veneziade»: studi e versioni. Imola, Galeati, 1886. 16°, pp. 263.

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<«< Rimanga, mentre il mondo duri, Grande Venezia e caro il suo Poeta »>, augurava alla Repubblica e insieme a sè stesso Publio Francesco Modesti in fine del suo lungo poema latino; ma il tempo fece ragione anche della potenza di S. Marco, e avea fatto assai prima dei dodici libri della Veneziade, che da molti anni e con parecchi compagni dormivano il lungo sonno delle Biblioteche, e avrebbero dormito chissà fino a quando, se pietoso di quell'oblio non tutto meritato, il signor Albini non avesse voluto con uno studio diligente rinfrescare un po' nei moderni la memoria del latinista romagnolo e della maggiore opera sua. Buona l' intenzione, cui rispose pienissimo l'effetto; perchè nel presente volume troviamo prima una compiuta notizia della vita del Modesti, un cenno d'altri poemi in lode di Venezia e un accurato esame della struttura, dei pregi e dei difetti della Veneziade; poi, trascelti opportunamente da questa e tradotti in buoni endecasillabi sciolti, 35 brani con l'originale latino dappiede, e con una succinta sposizione del resto, che li collega: quello che bisognava appunto a svecchiare il polveroso libro modestiano, senza però risepellirlo sotto il peso di troppo gravi erudizioni.

Dell'autore ci basti aver ricordato che nacque in Saludecio presso Rimini il 17 agosto del 1471, e che vi morì arciprete il 17 marzo del 1557: qui importa piuttosto di dare con l'aiuto dell'Albini breve notizia del poema. La Veneziade canta in metro eroico la lotta che la Repubblica sostenne negli anni 1507 e 1508 contro Massimiliano imperatore. « Cominciando (così il Modesti stesso dichiarava nella dedicatoria al doge Loredano la materia dei suoi esametri), cominciando dal primo ardere della guerra germanica, che dal duce supremo del vostro esercito, Niccolò Pitigliano, e da Bartolommeo Alviano insieme fu terminata, noi abbiamo per ordine le singole cose narrate, che in quella spedizione dai due capitani, divisi tra loro gli eserciti e le provincie, vennero fatte, per infino alla Lega di Cambrai, la quale, per opera di papa Giulio II, fu contro a Voi stretta da Massimiliano Cesare, e da quasi tutti i principi di nome cristiano, mentre pur durava la tregua con esso voi pattuita per un triennio dai Legati dell'Imperatore medesimo, e quando Voi sul principio di essa, spontaneamente, non so per qual cosa fattavi da tal riconciliazione sperare, avevate al Tedesco restituita la munitissima città di Trieste, a guerreggiare per le vie di mare e di terra in sommo opportuna, e

con essa, Gorizia e tutti i castelli di quella regione da Voi per diritto di guerra, dopo la vittoria di Cadore, occupati ». Nè alla storia di questi due anni avrebbe voluto il Modesti limitare i suoi versi, ma com'egli confessa nel seguito della dedicatoria, comprendere col poema tutta l'impresa di Venezia contro la famosa Lega; se non che, « consigliato e pregato da uomini preclarissimi a sospendere un tratto l'intrapreso cammino », s'era indotto a mandar fuori intanto questi primi dodici libri, che gli erano costati « quasi altrettanti anni » di fatica. Dodici infatti ne passarono fra quelli avvenimenti e la pubblicazione della Veneziade, che insieme con altri minori carmi latini dello stesso autore, vide la luce in Rimini, nel 1521, in un bel volume, oggi abbastanza raro, stampato coi tipi di Bernardino de' Vitali veneto, a cura e spese del notaio Sebastiano, fratello di Publio Francesco. Come che negl' intendimenti del Modesti non fosse che la prima parte di opera maggiore, il poema, già così più lungo dell' Eneide, è in sè compiuto. Non vi manca unità storica, nè un degno eroe, l'Alviano; vi abbondano, innestati più o meno opportunamente, parecchi episodi, taluno dei quali occupa un intero libro; e tutto il racconto principale s'intreccia alla favola mitologica. Come nel poema vergiliano, al cui esempio lo stesso Modesti si richiama nel suo proemio, i corrucci degli dei muovono quelli fra gli umani: Giunone parteggia per l'imperatore, Venere, naturalmente, per i discesi da Troia, per i nipoti di Antenore, pei Veneziani. E con gli dei dell' Olimpo si confondono i santi del Paradiso cristiano: San Marco, inviato da Giove-Padre Eterno, soccorre la sua città, Vulcano co' Ciclopi dà opera a compiere la famosa basilica marciana; e divinità antiche e moderne, e uomini e cose, tutta una strana miscela, copre ed uguaglia la forma classica. Strana, diciamo noi; ma tale non parea certo al gusto dei cinquecentisti, nè era forse anche nel fatto allora, quando, non che poeti e pittori, tutti gli uomini culti, fossero di toga o d'armi, ambivano di foggiare molte espressioni della vita reale (a cominciar da' cognomi) sugli esemplari classici; quando la vita politica e militare, piena ancora di molto sentimento artistico e cavalleresco, poteva senza sforzo adattarsi ai modelli vagheggiati. Però non è forse tanta, per chi sappia astrarre un po' dai caratteri estrinseci, la distanza che separa gli esametri eroici del Modesti dalle pagine mezzo dialettali di Marin Sanudo, che l'Albini assai opportunamente ha riportato qua e là in nota alle sue versioni. Massimiliano, o lo descriva il poeta: « Cesare, lieto d'assai belve uccise » (cfr. pag. 134), o lo figuri con tratti anche più caratteristici il diarista (cfr. pag. 253), è pur sempre quell' istesso tipo teutonico, fra regale e grossolano, di principe cacciatore; e la bella figura dell'Alviano, del Liviades, che prima di rassegnare i suoi soldati li ammonisce:

Huc aures animosque advertite vestros,

o latiae virtutis honos, et vivida bello

pectora, quos laudis mecum huc trahit aemulus ardor (pag. 150),

il nobilissimo duce, dico, non rimpicciolisce davvero agli occhi nostri diventando, nelle pagine del cronista vernacolo, il Sor Bortolo, che dopo la vittoria Archivio storico per Trieste, l'Istria e il Trentino

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