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alla Pieve di Cadore scrive alla Signoria: «Me tornai alli fanti ; et con quelle acomodate parole io seppi, prima li mostrai la certa vitoria combatendo; et poi li ricordai che, non combatendo, se perdeva lo honore e la vita; et che qui erano in loco da non pensare in salute alcuna, salvo in le lhoro mano. Et io, armato, in uno picolo ronzino mi misi in la fronte della bataglia, con mostrarli ch' io non voleva più vivere se non se vinceva; et cossì seria stato ». Non possiamo qui, nè gioverebbe gran fatto, particolareggiare il contenuto storico e mitologico di ciascuno dei dodici libri della Veneziade; sì c'importa additare ai lettori dell'Archivio quei tre che li riguardano più da vicino, il VI, il VII e l' VIII, nei quali si narrano i successi del Pitigliano nel Trentino (VI), e dell'Alviano nel Cadore, nel Friuli orientale (VII) e in Trieste (VIII). I fatti sono troppo conosciuti perchè bisogni ridirli con l'aiuto del Modesti; ma non così son noti i versi di lui, e però non isgradirà forse saggiarne alcuni nella bella versione dell'Albini. Dei tre brani che egli ci offre del libro VI, prendiamo questo, il secondo (pag. 179), che descrive le crudeltà dei Tedeschi nella Val Lagarina:

Trafitto è l'arator curvo sul curvo

aratro, e i solchi, ch'egli aprì, del proprio
sangue irriga: altri, a le consorti in braccio
o tra' vepri nascosi o nelle stalle,
miseramente l'empio ferro impiaga.
Non giova al vecchio tremulo la bianca
fronte, non al fanciul la vana etade
o'l supplicar di lacrimosa madre.
Marte nulla discerne. Quella donna
sopravvive a la strage, de la cui
persona turpemente arse il soldato;
l'altre son esca de la rabbia atroce.
E, poi che spenta la sanguigna sete
e ottuso fu l'acciar pe' colpi, e alcuno
già non restava che opponesse il petto,
a la preda si corre, e tutto fura

e tutto spoglia il Teutone vincente,

e, perchè nulla sia di Marte ignaro,

ciò che non può rapir dona alle fiamme.

Notiamo ancora nel libro VII l'ultimo degli squarci tradotti, l'Assedio e presura di Cormons; nell' VIII, Gli apparecchi guerreschi contro Trieste, ch'è anche l'unico passo rimesso in luce dall'Albini. Non è forse dei luoghi più felici della versione, tuttavia ci piace riferirlo in riguardo dell'argomento:

Già l'Alviano ed il Cornaro, omai
certi che s'allestian l'armi navali

nè mancherebbe sovra il mar la guerra,
movean lor campo, e, con Gorizia l'altre
vinte castella da le mura eccelse
lasciando, in cor volgean novi trionfi.
E, perchè della via forse inesperto
non deggia errar l'esercito, sebbene
precorran sempre i cavalieri e intorno

mandinsi esplorator', Marte egli stesso
innanzi a tutti va ne l'armatura
cuposonante; e, altrui per via spronando,
s'insinua nell'anime pugnaci.

La Gioventù feroce e vede e sente
il Dio, votando a lui le proprie spade
insanguinate ne' Tedeschi uccisi.
Intanto, delle cose osservatrice

e sollecita nunzia, avea la Fama
recato a volo al Triestin, che Marte
venia portando trepidi tumulti,

e instavan armi al mar, giungevan armi
a gran furia per terra, ed armi presto
sarebbero a le porte intorno itnorno.
La sterile città non però trema:
sta, confidata nelle rocce sue,

e s'apparecchia a sostener la furia
de le battaglie, ed i suoi muri afforza.
Qui munisce l'entrate, altrove innalza
bertesche, e il loco assegna ove ciascuno
debba operar. Giugne a le porte intanto
col caduceo levato un messaggero,
mandato innanzi dagli adriadi duci
l'alme nemiche per tentar; non forse
voglian più presto a inocuno marte dar si
e di pace ascoltar leggi benigne,
che aspettar belliche ire, aspra ruina;
quei dà uno squillo e l'ambasciata espone.
Ma gli altri allor, sè contenendo a stento
di prender l'uom e infliggergli col ferro
dure risposte, lo deriser forte,

e villania dicendogli, il cacciaro.
Arse a ragione di terribil' ira

ne l'imo petto l'Alvian, che intese
tanti dispregi dallo irriso Antigene;
tremendo si voltò di guerra a l'arti
e, sdegnato così, tutto repente
il nerbo marzïal pingendo innanzi,
parve improvviso a la fidente rocca.

L'assedio di Trieste occupa, già accennammo, tutto l'ottavo libro. E perchè il lettore abbia un altro saggio di questo e possa anche giudicare qualcosa degli esametri modestiani, concludiamo con toglierne dall'edizione originale alcuni pochi che narrano una scena dell'ultima valorosa difesa fatta dai cittadini intorno alle loro mura:

Patriae devota iuventus

certatim it cunctis sese obiectura periclis.

Arma senes tremuli arripiunt, et pristina tentant

robora, deficiunt venae priscique calores.

Matribus affusi pueri trepidaeque puellae

excitae e stratis passim per limina Divum

complorant, pavidisque vocant sua numina votis.

Ipsae autem matres postquam dolor intimus egit,

natorum obiecta et natarum sorte, supremam

rebus opem quem fata dabant tentare, relictis
aedibus et natis, sexu haud prohibente, feruntur
qua ciet arma fragor, quaque improbus ingruit hostis,
atque sui immemores primae cecaeque pericli

aut iaciunt ipsae, aut pugnantibus arma ministrant.

Nozze Garbin-Massai. Schio, tip. Marin, 1885.

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Le notizie storiche intorno a Schio, Santorso e Torrebelvicino, raccolte in questo opuscolo da D. GIACOMO BOLOGNA, non hanno grande importanza; ma degni di nota sono i cenni ch'egli dà intorno all'arte tipografica nel distretto di Schio nel secolo XV. Essi devono interessare anche a chi s'occupi della storia della letteratura e dell'arte tipografica nel Trentino; e perchè un po' scarsi, fanno nascere vivissimo il desiderio che l'egregio autore torni a trattare con maggiore ampiezza l'importante argomento.

Nel piccolo paesello di Santorso stampò vari libri, di cui il Bologna dà rapidamente la lista, negli anni 1473-1481, prima cioè di recarsi a Vicenza, mastro Zuanne dal Reno; e notiamo fra essi due opuscoli relativi al preteso martirio di S. Simonino, avvenuto allora in Trento.

A Torre di Belvicino, pure in quei tempi, coltivò l'arte della stampa il vicentino Lunardo Longo. Costui, essendo «< rector de la giesia de Sancto Paulo »>, aveva stampato nella sua città natale i Fioretti di S. Francesco nel 1476, ed altri libri, che il Bologna non indica, negli anni seguenti; ma nel 1478, ritiratosi nel contado, e divenuto « rector de la giesia de Mesier Sancto Lorenzo da tore de bel Visin », impresse là, in casa sua, un volgarizzamento di Climaco, che l'egregio raccoglitore di queste notizie pensa sia opera di esso Longo. Il Bologna finisce ricordando due altri libri stampati da pre' Lunardo, nei quali però non è segnato a tutte lettere il nome di lui, ma alcune più o meno arcane iniziali, col motto «< post tenebras spero lucem ». Il primo « Tabula super totum Decretum », sembra non abbia maggiori indicazioni; ma, l'altro, cioè il volgarizzamento della Catinia di Sicco Polentone, porta la data di Trento, 28 marzo 1482. Su questo il Bologna si distende alquanto; errando però dove afferma padovano e fiorito nel secolo XIV il Polentone, che fu invece, come i lettori dell'Archivio ben sanno, nativo di Levico nel Trentino (cfr. vol. II, pagg. 81 e 178), e che fiori nei primi decenni del secolo XV. Notevole è l'opinione del Bologna che entrambi questi libri venissero stampati in Torrebelvicino, e che il Longo mettesse alla Catinia la falsa data di Trento per meglio sfuggire a persecuzioni, cui alluderebbero il motto post tenebras spero lucem, e le misteriose iniziali sostituite al nome del prete tipografo. Temiamo però, che, sfornita com'è di prove, questa ipotesi, almanco per ciò che riguarda la Catinia, non sarà accolta troppo facilmente dagli studiosi. Poichè, se davvero, ciò che resta da dimostrare, il Longo fu perseguitato, non sarebbe punto strano che come egli fuggì da Vicenza a Torrebelvicino, così poi riparasse da quel paese Trento; nè è strano che la Catinia, opera d'uno della Valsugana, venisse impressa in quella città. E si

aggiunga che la data di Trento portano anche due altri libretti impressi dal Longo, e relativi pur essi a S. Simonino, i quali rimasero ignoti al Bologna, benchè l'uno venisse anche indicato e l'altro descritto nella memoria di G. Bampi Della stampa e degli stampatori nel principato di Trento fino al 1564, pubblicata già nel 1883 (vedi più innanzi, alla pag. 332, lo spoglio dell'Archivio trentino, a. II, fasc. 2): bisognerebbe adunque dimostrare che sono false, non una, ma tutte quelle soscrizioni, apposte a' libri che interessavano non Vicenza ma Trento. Chiuderemo col dire che il distretto di Schio sembra ad ogni modo non smentisca le sue nobili tradizioni tipografiche, poichè questo opuscolo nuziale è stampato con molta eleganza.

Canzone in lode dei Venzonesi: 1509 (per le Nozze Kechler-Pecile). Udine, tip. Seitz, 1887. 16°, pp. 15.

Canzone popolare contemporanea sulle guerre dei Tedeschi in Friuli nel 1509 (per le Nozze Serravallo-De Concina). Udine, tip. Patronato, 1884. 8°, pp. 19.

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La gloriosa difesa che il Veneto oppose nel 1509 ai collegati di Cambrai, e singolarmente alle armi di Massimiliano imperatore, ispirò, fra molte altre poesie popolari, queste due ballate friulane, che con l'agile strofa ottonaria corsero la Patria nunzie di vittoria e forti incitatrici di resistenza all'invasione tedesca. La prima, Su, su, su, Venzon, Venzone, già abbastanza nota agli studiosi per due precedenti edizioni fattene, come questa, da VINCENZO Joppi, narrava ai Veneti il valore di 40 scoppiettieri Venzonesi, i quali, incastellati con poche altre genti nella rocchetta della Chiusa, sbarrarono quel passo, che Enrico di Brunswick, con 1000 fanti e 250 balestre voleva forzare; e così bene impedirono il nemico, che dopo tre giorni d'inutili assalti esso dovette ritirarsi l'8 luglio del 1509:

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Un curioso episodio di codesta difesa aggiunge ora il Joppi, ricavandolo da un documento dell'Archivio Prampero. Ciò è una dichiarazione di Giacomo Sagredo castellano della Chiusa, il quale attesta, come a un certo punto della resistenza, mancando le munizioni per le bocche da fuoco, «la nobile et honestissima Dona Anastasia, mogliere del nobile ser Artico de Pramper... portasse certi peltri de li suoi in Castello aziò fosseno fatte balote ad defension de dicto Castello; le qual furon molto a proposito, e questo perchè a quel tempo non si trovavano balote nè piombo di farne in la fortezza », e come la gentildonna venisse «< alla porta, al tempo che li inimici davano la bataglia, non senza grandissimo pericolo de la sua persona >>

La seconda poesia torna ora per la prima volta in luce, anch'essa per cura del Joppi, da un raro opuscolo popolare intitolato: In questa Historia se contien le Corarie e Brusamenti che hanno | facto li todeschi in la patria del Friulo con alchune | Barzelette pavane; il quale comprende, oltre alla ballata che il Joppi ripubblica, tre sonetti (l'ultimo in dialetto pavano) e due canzonette, e non porta note tipografiche, ma la stampa è probabilmente veneziana, certo contemporanea agli avvenimenti accennati nelle poesie, nessuno dei quali passa il luglio 1509. Se pur l'autore non è uno stesso con quello della canzone venzonese, come inclinerebbe a credere il ch. editore, certo egli fu ispirato da eguale amor di patria e da odio grandissimo contro l'invasore; sentimenti che dopo quattro secoli fremono pur sempre vivi dal forte ritornello e dalle diciassette stanze di quest'inno di guerra. Vi si rassegnano, appunto come dice il titolo, le arsioni e i saccheggi che gl'imperiali fecero nel Friuli durante il giugno e il luglio del 1509 con assai crudeltà ma con poco frutto, perchè, dopo aver sfogato la rabbia sui luoghi minori, respinti da Udine e poi da Cividale, dovettero il 2 agosto levare da quest'ultima città il campo «< scarso di munizioni, di viveri e di gloria », e ritirarsi, udendo alle spalle echeggiare le vigorose strofe friulane:

Ritornati, o discortese,
imbriagi e vil canaglia,
vostre arme si non taglia

a voler con nui contese !
Ritornati, o discortese !
Che credevi, o miserelli,
per venir con sparavieri
ad impirse li borselli?
non sapevi che non eri

bastante a tal mestieri

con vostre arme et anche arnese?
Ritornati, o discortese !

Ritornati a le barile,

che gli seti molto destri,
al costume del porcile
e stareti ben senestri;
aspectàti d'esser desti,
poi mettete a nostre spese

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