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Pentecoste: del resto mi accordo col Tommaseo. E di questo specialmente e del Nome di Maria e della Pentecoste, mi par più vero ciò che il Goethe giudicava in generale di tutti: «Mostrano che un soggetto per quanto spesso trattato, che una lingua, se anche per molti secoli maneggiata, riappariscono sempre freschi e nuovi, subito che un fresco e giovanile spirito sa afferrarli e servirsene »>').

L'inno ha due parti: nella prima è cantato il mistero per sè stesso nel tempo evangelico: nella seconda gli effetti morali che il mistero commemorato e celebrato opera o dovrebbe operare nella società cristiana dell'oggi. La prima parte, dalla strofe prima a tutta la decima, è lirica epica; la seconda, sino al fine, lirica parenetica.

III.

Nella prima parte l'idea dominante è, come nota il Tommaseo, l'ucciso risorto; e per la mirabilità del fatto, che è anche il fatto fondamentale della religione cristiana, il poeta vi torna sopra a insistere con l'affermazione, con la narrazione, con la comparazione, con le memorie, con la fantasia, col sentimento. Prima il fatto nell'apprensione individuale e popolare degli ebrei al momento della notizia (str. 1-4): poi il fatto dinanzi alla memoria e alla fantasia degli ebrei, al passato e all'avvenire della nazione d' Isdraele, nelle profezie e nel limbo (str. 5-8): in ultimo il fatto in sè stesso, nel luogo storico, nella leggenda (str. 9 e 10).

È risorto: or come a morte

La sua preda fu ritolta?
Come ha vinte l'atre porte,

Come è salvo un'altra volta

Quei che giacque in forza altrui ?

Io lo giuro per Colui

Che da' morti il suscitò,

È risorto: il capo santo

Più non posa nel sudario:
È risorto: da l'un canto

De l'avello solitario

Sta il coperchio rovesciato:

Come un forte inebriato

Il Signor si risvegliò.

1) Classiker und Romantiker in Italien, in GOETHE'S Sammtliche Werke, Paris, Baudry, 1840, t. V, pag. 174.

Qui l'abbate Salvagnoli-Marchetti domanda: «È forse nel Manzoni bontà lirica quel dialogo cosi arido e così oscuro fra due incogniti, con che ei dà incominciamento a questo terzo inno? Io non istarò qui a fare una dissertazione intorno il dialogo, e a ripetere ciò che con tanta filosofia e leggiadria ne ha scritto il valentissimo Pallavicini nel suo Trattato dello stile e del dialogo. Non avvi uomo per poco istruito nelle lettere, non àvvi uomo per poco fornito di buon senso, il quale non sappia che il dialogo di semplice domanda e risposta non conviensi punto all'alta poesia, siccome è la lirica, la quale sdegna tutto ciò che non sia grande nei pensieri, nei modi e nelle parole; e che perciò lo stretto dialogo non è che delle scene soltanto e delle materie didascaliche. Se un dimandare e un rispondere potesse dirsi alta poesia e nobile incominciamento di lirico inno, e che ci vieta di non appellar nobile e lirica poesia quella di tante canzonette che cantano i ciechi per le strade, e che io mi guardo dal trascrivere, tanta è la venerazione che ho pel Manzoni, e tanto abborrisco da qualunque cosa che sentir possa di scherzo e di disprezzo ».

Cosi il Salvagnoli. Ma prima di tutto, come gli venne in mente che queste due strofe siano solo e veramente un dialogo, e un dialogo di semplice domanda e risposta? E poi, perchè il dialogo non si conviene alla lirica? Se dialogo sono le canzonette cantate dai ciechi, tanto meglio; essendo elleno una testimonianza del come il popolo conserva certe forme della lirica. Dei salmi parecchi, e de' più animati, sono a dialogo: sono a dialogo due almeno delle odi di Orazio, non certo delle men belle: a dialogo un epitalamio. ed un'elegia di Catullo: a dialogo i molti contrasti in canzonette e ballate dei primi tre secoli della nostra lingua. Queste strofe del Manzoni credo anch' io che nel senso letterale siano un dialogo tra due del popolo, a pena corsa la voce del miracolo. Il primo interlocutore è un isdraelita non ardente e non protervo, che dice: - Dunque è proprio risorto. Ma come è possibile? - E l'altro, un fervente, un discepolo: - Io lo giuro per quello dio che lo risuscito dai morti: è risorto! - Tale il senso letterale. Il senso anagogico, come diceva Dante, è l'antitesi tra la ragione umana e la fede. Così inteso, il dialogo non potrebbe essere più bello. Quel secondo interlocutore, il fervente, com'è vero con quel suo giu

ramento, con quel ripetere insistente, con quell'affetto d' innamorato il capo santo più non posa nel sudario, - con quella rimembranza della comparazione davidica!

Ma tutt'altro ne parve al Salvagnoli. Era un uomo quello che faceva delle questioni divertenti. «È risorto. Chi mai? ignorasi ». Ma via! un cristiano, e mezzo prete o prete intero! In un inno sacro sulla Risurrezione o chi deve esser risorto se non Gesù Cristo? O volevate che nello scoppio della gran notizia quel povero ebreo dicesse: Sapete? è risorto Gesù Cristo signor nostro, figliuolo vero di Maria e dello Spirito Santo, e putativo di Giuseppe. falegname, della generazione di David?- Ma l'abbate ripiglia: «<Chi ciò afferma? non si sa. Chi risponde? non ti è dato il conoscerlo». Peccato! Ognuno sente veramente il bisogno di aver qui nome cognome e domicilio de' due interlocutori, e sapere se uno fosse, per esempio, Zaccaria figlio di Zorobabele della tribù di Neftali, e un altro vattel'a pesca. Ma l'abbate insiste: «< Come è salvo un'altra volta? Forse mori un' altra volta, e un'altra volta risuscitò questo incognito? ». Al certo l'abbate, per non corrompersi il gusto, non doveva leggere il Vangelo, altrimenti avrebbe ricordato come a punto altre volte Gesù fosse scampato alle insidie e all' ira de' suoi nemici. Ma l'abbate séguita: «Io lo giuro per Colui che da morte il suscitó. Chi dimandava non dubitava del fatto, ma voleva sapere il come: sicchè questo giuramento fatto per colui, che tu ignori chi sia, sembra esser fuori di luogo ». Ah, nè meno si porta rispetto a S. Paolo: per Iesum Christum et Deum patrem qui suscitavit eum a mortuis (Ad Galath., 1). Il come è detto ne' versi appresso. Ma l'abbate incalza: « E il capo santo più non posa nel sudario è detto in modo lirico o di famigliare dialogo? In qual vocabolario mai poetico sta registrata quella bella e nobile parola sudario? Il più negligente scrittore si guarderebbe di porla in una prosa non dirò di accademia, ma da pulpito ancora. Chi non sente quanto sia abietta questa parola e il modo con che viene usata, dubito che non sappia davvero che cosa voglia dire lirica poesia ». Certi critici di cinquant'anni fa e del giorno d'oggi sono ameni per gli odi feroci, stralunati, schiumanti che pigliano a volta a volta con certe parole alle quali non c'è villania che non dicano. La parola sudario per l'abbate Salvagnoli è, come sentite,

abietta; non l'avrebbe messa nè anche in una prosa da pulpito, che, a come la tratta l'abbate, deve essere una prosa andata molto a' cani. E pure Venanzio Onorato Fortunato, un ottimo retore veneto che fu poeta di Santa Radegonda moglie di Clotario primo e vescovo di Poitiers, in un inno sulla Resurrezione cantò:

Lintea tolle, precor, sudaria linque sepulcro:

Tu satis es nobis, et sine te nihil est.

E sudarium è del latino classico di Quintiliano, di Marziale, di Catullo. E sudario è nei volgarizzamenti della Bibbia e delle Omelie di San Gregorio, fatti nel secolo XIV. O che l'abbate Salvagnoli avrebbe voluto invece l'asciugatoio?

Nella strofe seconda scrive il Tommaseo che da prima leggevasi:

È risorto! dall'un canto

Dell'avello solitario

Giace il marmo scoperchiato.

<< Pensò poi forse il poeta che scoperchiato propriamente è il recipiente a cui sia levato il coperchio. Onde corresse:

Sta il coperchio rovesciato ».

Cosi il Tommaseo. Ma nell'autografo, stando a quello che ne riferisce l'on. Bonghi, non apparisce cotesta prima lezione; nè è nella edizione del '15. Se non che, quanto all' autografo, bisogna intendersi, e correggere alcune inesattezze nelle quali, almeno per la Resurrezione, caddero il prof. De Gubernatis e l'on. Bonghi. Il primo nel suo studio biografico sul Manzoni ') scrive che l'autografo della Resurrezione e la stampa differiscono notevolmente. Ora, se intende di due o tre strofe nell'autografo cancellate, ha ragione: ma lo scritto netto, la lezione che il poeta lasciò ultima senza cancellatura, è in tutto e per tutto conforme all' edizione del '15. La quale il Bonghi non vide, se bene ne riportasse in nota la descrizione, poi che, dopo detto che l'inno fu stampato come è scritto nell'autografo, aggiunge: « E non v' ha nello stampato se non due soli versi dei quali nello scritto non è traccia. Sono nell'ultima strofa ». Ora nella prima edizione l'ultima strofa ha versi in tutto gli stessi che nell'autografo; solo nelle edizioni succes

1) Firenze, Succ. Le Monnier, 1879, pag. 132.

sive quattro furono rinnovati o emendati, come vedremo a suo luogo.

Tornando alla critica del Salvagnoli e compagni, la comparazione del forte inebriato fece scandalo. A cotesto punto l'abbate s'imbizzarri a provare che quel passo nella Scrittura non deve dir così, e che interpreti e traduttori gli dànno un senso diverso da quello della vulgata. Il Tommaseo ebbe, a parer mio, il torto di spender troppe parole a difesa del Manzoni e della vulgata. Il fatto è che il salmo settantesimosettimo, vers. 61, nella versione latina, accolta dalla Chiesa cattolica, canta: Et excitatus est dormiens dominus tamquam potens crapulatus a vino; che il Diodati, d'altra confessione, tradusse dall'originale così in versi:

Ma 'l Signor si destò dal sonno fiso,

Qual, se oppresso dal vin forte guerriero
Si riscuote talor, sclama improvviso 1);

che Martin Lutero traduce: Und der Herr erwachte wie ein Schlafender, wie ein Starker jauchzet, der vom Wein kommt 2). Ora, o che il forte sia detto inebriato, o che esclami ed esulti o giubili dal vino, è lo stesso. La comparazione o la imagine è di quelle che i forti poeti delle età giovini, David, Omero, Eschilo, Pindaro, lanciano alla brava nel fervore del canto: i letterati delle età culte le limano o le tosano: il Manzoni la riprese e gittò netta e rozza com'era. E fece bene; tanto più che in que' suoi versi parla un ebreo, quasi citando l'autorità dell'antico profeta. È, come dicevano, color locale. La morte passò sul leone di Giuda, come un'ebrietà sur un giovine robusto.

Come a mezzo del cammino,
Riposato alla foresta

Si risente il pellegrino,
E si scuote dalla testa
Una foglia inaridita,
Che dal ramo dipartita
Lenta lenta vi ristè;

1) I salmi di David recati in rime toscane da Giov. DIODATI, Milano, Daelli, 1864, pag. 152.

2) Die Bibel nach der deutschen Uebersetzung D. MARTIN LUTHER'S, London, Bagster, pag. 386.

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