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presente: «Nelli tre primi di di Marzo ed ultimi tre di Febbraio scrive il Placucci nel suo noto libro sugli Usi e pregiudizi de' contadini nella Romagna- tutti li ragazzi costumano sull'imbrunire della sera di fare lume a Marzo, come altri dicono: abbruciando ne' campi in vicinanza della casa varj mucchi di paglia, e cantando la seguente canzone:

Lemma, lemma d' Merz,

Una spiga faza un berch;
Un berch, un barcarol,
Una spiga un quartarol;
Un berch, una barchetta,

Una spiga una maletta »>,

La canzone, come si vede, augura che la terra sia feconda, anzi, aggiunge curiosamente il Placucci, « nasce in tale circostanza qualche diverbio fra quelli che vorrebbero molto grano e quelli che brameriano molto vino, cioè li bevitori; poichè li primi fanno lume a Marzo pel grano, ed i secondi pretenderebbero

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1) Forli, 1818; e nella ristampa curata dal Pitrè (Palermo, Pedone Lauriel, 1885), tit. IV, cap. XV, p. 103 e segg. Il Placucci registra anche un altro costume romagnolo, che può avere qualche analogia con quello di illuminare Marzo: «< In alcune ville ne' primi di Marzo fanno dei fantocci ornati di rami di sambuco, e vi ballano intorno le donne col cembalo; ed alcune giovinette inghirlandate di fiori vanno di casa in casa cantando la zingarella, annunziando il buon raccolto, e credendo con ciò di conseguirlo ». Il qual costume ci richiama a quello de' vecchi fiorentini ricordato dal Pucci nel suo Centiloquio (c. 35, terz. 76-79):

E sappi ancor da me, lettore e mastro,

Che 'ntagliato vid'io appiè del ponte
Marte a cavallo, ad alto, in un pilastro;

E posta gli era la ghirlanda in fronte

Di fiori, quando Marzo andava asciutto:
Quando era molle, per dispetto ed onte

Gli era gittato fango e fatto brutto

Da' portator' che quivi facien loggia,

Si che coperto n'era quasi tutto.

Poi il diluvio che venne per pioggia

Ne menò il ponte e Marte....

Superfluo aggiungere che si tratta della statua ricordata da Dante nel

canto XIII dell' Inferno.

piuttosto che si facesse tale funzione alle viti nel mese di Settembre ». Non so se la costumanza duri ancora in Romagna; ma certo non sarà difficile di trovare tutta la festa del Calendimarzo ancora in uso, oltre che nel Trentino e nel Veronese ', anche in qualche altra regione d'Italia 2. A me fece gradita impressione l'averla saputa viva pur in un'altra bellissima parte delle Alpi venete, nella Carnia. La festa non vi si celebra nel primo di Marzo, ed è un po' diversa dalla trentina, non però meno poetica. Ma io non vorrò descriver male ciò che una simpatica e forte scrittrice ha dipinto assai bene; chè, mentre il Calendimarzo trentino ispirava al Prati una ballata, l'analoga festa della Carnia dava il titolo e buona parte dell'argomento a uno dei migliori racconti di Caterina Percoto:

<< Giacomo. ... arrivò sull' imbrunire ad Arta, guardò la montagna che sorge a sinistra del villaggio, e sulla cui cima è situata Cabia. Il cuore gli batteva impetuoso. Nel dimani celebravasi la messa così detta della gioventù, ed egli avea tanto corso, ch'era giunto prima che si cominciasse a far scivolar le girelle. Tra quei monti vige un antico costume. La sera precedente a un di solenne, alcuni giovinotti del villaggio ascendono la montagna, piantano a lor dinanzi un impalcato, e tagliate di legno resinoso delle rotelle in forma di stella, le conficcano ad un palo, indi danno lor fuoco e le girano, le girano, finchè sieno bene ardenti, poi battono d'un gran colpo il palo sulla panca, e le fanno scivolar giù a salti per la montagna consecrandole al nome delle giovinotte del paese. A' piedi del monte vi è un'altra turba di garzoni,

1) L'uso di salutare con fuochi il Calendimarzo penetrò pure fra i tedeschi dei tredici comuni veronesi (v. Arch. glott., VIII, 257) e di qualche posto del Tirolo.

2) Anche nel Vicentino è rimasta qualche traccia della festa. A Valdagno, ad esempio, suonano le solite campanelle esclamando: Va fora Febrar, che Marzo xè qua; e fino a pochi anni sono a Categnan salivano sugli alberi gridando: Marzo entrato in questa terra

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ma sempre con intenzione satirica; e i fuochi li accendevano sotto agli alberi non più gli innamorati, ma i parenti infastiditi, per far scendere da quelli gli audaci burloni: curiose trasformazioni d'uno stesso costume!

che stan pronti con armi da fuoco per festeggiare a chi più può il nome della propria amorosa. Giacomo sapeva che la gioventù del suo villaggio era solita nel di seguente far cantare una messa alla Vergine perchè ne custodisse i costumi, e che in quella sera salivano a metà dell' erboso monte di Cabia per lanciare le girelle. Erano tre anni ch'egli avea abbandonato Arta per guadagnarsi il pane col mestiere del legnaiuolo, Era giunto a farsi benvolere dal suo padrone, aveva accumulato qualche risparmio, e ritornava in patria a far provvista di legnami e nello stesso tempo a vedere se la Rosa gli era ancora fedele. Portava un paio di pistole e della polvere da schioppo, e tutto il viaggio avea mulinato del come arrivare sconosciuto, e della grata sorpresa che preparava a lei nel farle sentire nella festa delle girelle salutato il suo nome da parecchi spari e forse più che alcun altro delle compagne. Quando guardò al monte di Cabia e vide che arrivava in tempo, senti corrersi al cuore un tal soprassalto di gioia e sì fattamente cominciarono a tremargli le gambe, che dovè entrare nell'osteria per refocillarsi un istante. Ivi ad una tavola trincavano alcuni giovinotti suoi coetanei. Vicino alla tazza tenevano le pistole già cariche e cantavano le patrie villotte, quelle villotte, ch'egli stesso un tempo insieme con essi avea creato e che più d'una suonava nel nome della Rosa. Fu li per correre ad abbracciarli, ma si rattenne pensando all'improvvisata che macchinava. Si ritirò in un cantuccio, visitò le sue armi, e quando vide partire i compagni tenne lor dietro fino alle falde della montagna. Là si nascose dietro una macchia presso il fonte, e stava aspettando il grido di gioia che doveva dirgli il nome dell'amata. Era una bella notte serena: mite la stagione e tutte ancor verdi le montagne. Di dietro ai gioghi di Cabia spuntavano due candidi raggi che andavano allargandosi a guisa di ventaglio e si perdevano nell' immenso azzurro.

Prima che comparisse la luna incominciò la festa. Fu accesa la prima girella, e balzò pei greppi della montagna, consecrata al parroco del paese; dopo questa fu lanciata la seconda nel nome della più bella ragazza del villaggio, e poi una terza, e poi una quarta, e spari di fucile e grida festose le salutavano al basso, e l'eco fragoroso le ripeteva fin oltre Paluzza. L'un dopo l'altro furono declinati ventotto nomi senza che mai suonasse quello di Rosa Pignarola. Era indescrivibile l'ansietà di Giacomo. Sul principio il proprio orgoglio gli faceva sperare primo quel nome. Bionda ricciutina candida e rosata, dagli occhi neri e dalla svelta figura, gli pareva impossibile, che tutti come lui non la vedessero per la più bella. Ma quando udi preposte altre, ch'egli avea conosciute, e che nella sua mente non valevano un ricciolino della Rosa, cominciò a pensare che la poveretta era così trascurata perchè aveva l'amante lontano, e sentivasi crescere il cuore e si felicitava di vendicarla e farla trionfare cogl'impensati suoi spari. Intanto suonò l'ultimo nome di fanciulla. Dopo questo furono inalberate un'altra ventina di girelle

e fra gli evviva i canti e gli scoppi balzavano a salti dalla montagna ed altre a furia le seguivano, sicchè da lungi ti pareva una pioggia di stelle che giù volassero a tuffarsi nelle acque della But, o che una magica verga per illuminare la notte avesse percosso il monte e fatta scaturire questa magnifica fontana di foco. Povero Giacomo, che fu di lui, allorchè senti svanirsi ogni speranza. Ch'era dunque stato della Rosa?....

Ma chi vuole il séguito del racconto della buona contessa friulana, dove tutta la vita della Carnia si presenta quale è veramente, cerchi e legga da sè Lis cidulis; è questo il nome friulano delle girelle che accese vengon lanciate dal monte nella festa dei giovani. Il bel racconto fu stampato la prima volta nel 1845 a Trieste, premio agli abbonati della Favilla 1, redatta

1) Lis Cidulis: scene carniche di Caterina PercOTO, Trieste, Papsch, 1845. Un saggio ne era apparso nella stessa Favilla l'anno innanzi. Il racconto fu poi ristampato a Firenze dal Le Monnier nel 1858 (PERCOTO, Racconti, I) e a Milano nel 1880 dal Carrara (PERCOTO, Novelle scelte, vol. I, nov. I). L'usanza di lanciar le girelle, sempre viva nella Carnia, mi fu cosi descritta da un signore che ne fu più volte testimone: « A Piano d'Arta, come in altri paeselli della Carnia, nella sagra del paese, sulla cima d'un colle che lo domina, si accende un gran fuoco, vi si arroventano lis çidulis (pezzi di larice) e si sparano due colpi di mortaretto; poi uno grida: A chi la vadi vadi! Vadi a...., e lancia le çidole (la girella) nella direzione della casa della ragazza cui l'ha dedicata. Lo sposo, quando c'è, risponde con una schioppettata. Una girella, la prima, è dedicata al santo protettore del paese ». A Enemonzo lis cidulis si lanciano gridando: Cheste cidule a ti trai in onor in favor di N. N. con N. N. Accenni alla costumanza della Carnia trovo solo in Bassi, La Carnia, guida per l'alpinista, Milano 1886. — Qualche avanzo della vecchia usanza dura anche in altre parti del Friuli. A Sutrio presso Tolmezzo, mi scrive Guido Mazzoni, lis cidulis si lanciano la vigilia della sagra accompagnate da questa poco bella filastrocca: Une biele cidule taliane Ca leti in amor Su pel cul del pastor; Se no 'ul la biele, Ca leti la brute Su pel cul de la Cute. Ecola qua, ecola là: ca leti a la me morose..... e qui il nome della ragazza, A Comeglians dove però l'usanza ricorda sempre più quella trentina — la vecchia festa tradizionale si fa a capodanno, Alla Pontebba finalmente, lis cidulis si chiamano scaletis e si lanciano la sera di San Giovanni, nella quale pur in molte altre parti d'Italia si accendono grandi fuochi, che rammentano quelli del primo di Marzo,

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da Pacifico Valussi, da Francesco Dall'Ongaro, da Antonio Gazzoletti. Quel giornaletto, utile palestra ai migliori ingegni del Veneto, fu davvero favilla che gran fiamma seconda: fiamma di nobili aspirazioni e di forti propositi.

Tereglio (Lucca)

A. ZENATTI

GIACOMO DA RIVA

PITTORE IN VERONA NEL SECOLO XIV

Tanto nel libro dell'Ambrosi sugli Scrittori e artisti trentini (Trento, 1883) quanto nella Nota d'artisti trentini o che lavorarono nel Trentino compilata dal p. Tovazzi e pubblicata da Paolo Orsi in questo Archivio (III, 97) non trovo menzione del pittore trentino messer Giacomo da Riva, della seconda metà del secolo XIV, del quale ci resta un lavoro nella tribuna dell'antica pieve di Santo Stefano in Verona, sul lato di mezzogiorno del pilastro in cornu epistolae dell'altar maggiore. Questo affresco rappresenta una bella Madonna che allatta il Bambino sostenendolo con la mano sinistra. Ambedue le teste hanno i capelli biondi e sono cinte di un nimbo a piena doratura. La Vergine seduta sur una cattedra di legno bianco ha la veste rossa fregiata ad oro. Un manto verde cupo con fiorellini e con orlature dorate, partendo dalla testa e scendendo sulle spalle, viene ad allacciarsi sull'alto del petto. Il quadro, alto cm. 78, largo cm. 72, è rovinato nei suoi lati destro e inferiore. Novanta centimetri sotto

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