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ragione! fisso a non retrocedere; sopratutto a non chiudere mai gli occhi alla verità; ad affrontarla, se era d'uopo, anche quando sembrasse levarsi minacciosa contro il vero rivelato; certo soltanto della mia ignoranza; fidente del resto nello studio e nella preghiera.

Non fu che a poco a poco, con estrema lentezza, che potei riuscire a formarmi una convinzione, la quale, a mano a mano che si svolgeva nel mio animo, regolava i miei studî. La convinzione, ora in me profondamente radicata, è questa: che in materia di Cosmogonia mosaica, e per tutto ciò che nella Bibbia si riferisce alla storia fisica del globo, non si è andati finora, e peggio negli ultimi tempi, cercando la verità che dove non si poteva nè si doveva trovare. Noi abbiamo creduto che dalla scienza ci dovesse venire il lume necessario per intendere la Scrittura. Dimenticando, sia pure senza accorgercene, con tutta buona fede, ciò che ci aveva lasciato scritto S. Paolo: Fides vestra non sit in sapientia hominum, sed in virtute Dei (1); abbiamo cercato il sustanziale, dove tutt' al più avremmo potuto cercare l'accidentale, e, nel caso concreto, abbiamo creduto in questi ultimi tempi, che la geologia, nata ai nostri giorni e ancora sì incerta nelle sue teoriche, fosse venuta proprio ad insegnarci a leggere in capite libri, cioè a darci il senso di quel primo capitolo antichissimo, a cui fu consegnata la prima, la più fondamentale tra le verità rivelate; quella dell'esistenza di Dio, creatore del cielo e della terra. Strano davvero, inconcepibile e sommamente umiliante per la nostra fede, quando non fosse falso, che noi avessimo dovuto aspettare il verbo dei geologi, per intendere il

(1) I Ad Cor., II, 5.

primo capitolo del verbo di Dio. Così al vecchio giogo del tradizionalismo si sovrappose al dorso dell'esegeta il nuovo giogo della scienza; e l'esegeta fu ridotto per ciò all'alternativa o di camminare contemporaneamente per due vie opposte (cosa assurda e impossibile) o di scegliere fra l'una e l'altra; tra l'ostinarsi ad ammettere ciò che la scienza era andata, con pieno diritto sconfessando, o di buttarsele in braccio, per seguirla anche là, dove la scienza non può essere che un cieco conduttore di ciechi.

Una volta venuto in quella convinzione, e ritornato con fiducia alla sapienza dei Padri, ed alle regole della pura Esegesi, stabilite dapprima da Cristo stesso e dagli Apostoli, poi sancite e formulate dalla dottrina e dalla pratica costante dalla Chiesa cattolica, mi parve che di notte si facesse giorno. Oh quante volte, in faccia alla luce che andava rischiarando i più oscuri orizzonti, nella gioja della riconquistata tranquillità dello spirito, e nell'ebbrezza della speranza di potere un giorno, a Dio piacendo, recare a' miei confratelli nella fede un raggio di luce e una parola di conforto; quante volte, dico, andai ripetendo a me stesso: Modica fidei! quare dubitasti? Non sarà anche questa un'illusione? Faccia Dio che nol sia! Ma intanto, ahimè! longa tibi restat via: vo' ripetendo a me stesso; e la mia faticosa giornata è ormai presto al tramonto. Mi concederà Dio tanto ancora di vita che basti ad ordinare i molti materiali raccolti, per illustrare con nuovo commento, la mistica settimana di Dio?...

Io sono andato intanto qua e là chiarendo, ne' precedenti miei scritti, le norme ch'io intendo seguire nell'interpretazione della Cosmogonia mosaica: anzi nei periodici La Rassegna Nazionale di Firenze e La Sapienza di Torino ho pubblicato diverse serie di articoli, che

potevano considerarsi come altrettanti saggi dell' opera, che intendevo in seguito di dare alla luce. Nè mi sono mancati gl' incoraggiamenti degli amici, e le approvazioni di uomini, anche di Vescovi, nelle scienze sacre dottissimi; nè mi mancarono da parte delle stesse dottissime persone le critiche, assai più preziose delle lodi e degli incoraggiamenti; le critiche, di cui non ho lasciato nè lascerò di far tesoro, ogni volta che avrò la rara fortuna di vedermi criticato da persone competenti.

Ora gli stessi amici, le stesse dotte e venerabili persone, visto che que' miei scritterelli esegetici non videro la luce che in periodici, egregi sì, ma pur troppo poco divulgati, ed ora di difficile acquisizione, mi consigliano di riunirli in un volume alla portata di tutti. Credono essi che possano valere principalmente a dare un'idea dei principî e del metodo, che, per mio avviso, dovrebbero seguirsi nell' interpretazione letterale, non solo dell'Exemeron, ma di tutti quei passi dell'Antico Testamento, principalmente dei racconti della Genesi, che, riferendosi alla storia fisica del globo, si trovano inevitabilmente di fronte alle scienze positive, armate dei loro incontestabili diritti, e per giunta indisposte contro la fede.

Così è dunque dichiarato lo scopo semplicissimo di questa mia pubblicazione. Essa comprende, come lo dice il suo titolo, tre scritti, ossia tre saggi affatto separati, in quanto formano ciascuno un tutto a sè, ma congiunti nell'unità dell'oggetto e dello scopo comune, in guisa da risultarne un'opera una.

Preliminari d'un

Il primo saggio, che s'intitola Exemeron non esce dalla pura teorica, essendovi discussi i principî della critica esegetica, sui quali intendo appoggiarmi, e le norme ch'io penso di seguire nell'in

terpretazione letterale, non solo della Cosmogonia mosaica, ma anche di tutti quei passi, i quali, come la storia del Paradiso terrestre e quelle del Diluvio e della rovina di Sodoma e Gomorra, devono necessariamente venire a confronto colla geologia e colla storia fisica del globo.

Gli altri due saggi sono tentativi di pratica applicazione delle norme e dei principî suddetti. È necessario riflettere a proposito che, nel linguaggio biblico, abbiamo da una parte l'elemento umano, in quanto il linguaggio medesimo è adoperato a significare, come si significa comunemente, quel tanto che nella Scrittura costituisce unicamente la parte accidentale, e non può essere che oggetto materiale o indiretto del divino insegnamento. Appartengono a questa parte affatto accidentale i fenomeni fisici, i fatti puramente storici, e tutto quello che non esce dai limiti del percettibile ai sensi o del puro razionale, dove quindi la critica esegetica non può avere altre norme da quelle della critica comune, cioè logica e puramente scientifica. Abbiamo dall'altra parte l'elemento divino, in quanto il linguaggio biblico, che è pur sempre. linguaggio umano, è usato a significare ciò che costituisce veramente la sostanza, ossia l'oggetto formale e diretto del divino insegnamento, come verrà meglio dichiarato a suo luogo. Sotto questo punto di vista vengono a collocarsi necessariamente tutte quelle nozioni che si riferiscono all'ordine soprannaturale, tutte le nozioni cioè, a cui non possiamo elevarci, per mezzo della sensitiva o intellettiva percezione, della coscienza o della ragione non soccorsa da quel lume soprannaturale che si chiama Rivelazione. Qui la critica esegetica non è più semplicemente critica razionale; e se vuole approdare a buon

porto, ha bisogno di ben altre norme, le quali non possono venir suggerite che dalla fede.

non

Intesi su questo, de' due saggi di cui ci rimane a parlare, il primo, che porta per titolo Il concetto biblico delle acque nella storia della meteorologia si riferisce che ai fenomeni meteorologici, con quanto naturalmente si lega a questi fenomeni, ed al modo con cui sono espressi, dapprima nel testo della Cosmogonia da Mosè, poi via via negli altri libri della Scrittura, a norma del progressivo sviluppo dell'umana esperienza e della scienza riflessa. Qui domina l'elemento umano, e mostro come in questo genere di studî l'esegeta debba lasciarsi guidare, più che dalle regole della pura esegesi sacra, da quelle della esegesi comune, a cui le Scritture, considerate per quella parte, non già come opera umana, ma come espressione di idee e di opinioni degli uomini nei diversi luoghi e nei diversi tempi, prestano l'elemento storico necessario alla completa intelligenza del sacro Testo, nella sua totalità, e quindi anche per ciò che riguarda l'obbietto vero e formale del divino insegnamento. L'altro saggio, intitolato Gl'imperativi della Ge

nesi riflette interamente i verbi che, sotto la forma di altrettanti imperativi umani, esprimono l'unico, infallibile, imperativo divino, ossia quell'atto unico, eterno, onnipotente del volere di Dio, con cui Egli pone le sue creature, cavandole dal nulla, il che vuol dire dando l'essere al non essere. Qui naturalmente l'esegeta non può pigliare quelle umane parole, come fossero da labbro umano proferite. Fa d'uopo, per intenderle e spiegarle, che le metta, per dir così, nella bocca di Dio: il che non gli tornerà possibile, se non si eleva in un ordine di cose superiore a tutto ciò che vi ha di umano, a tutto

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